Cari amici lettori di questo blog, ho l’impressione che stiamo vivendo davvero tempi difficili nelle relazioni tra Nord e Sud del mondo, particolarmente tra Europa e Africa. L’Italia, inutile nasconderselo, non è affatto estranea a questa dialettica con uno strascico di polemiche a non finire. Vorrei pertanto condividere con voi una riflessione che parta dall’esigenza istintiva di “mettere le cose nero su bianco” come recita un’espressione ricorrente nel nostro discettare, un modo di dire che forse potrebbe aiutarci a ristabilire il giusto equilibro culturale con l’Africa, almeno dal punto di vista lessicale. A pensarci bene, come rileva il congolese Jean Leonard Touadi, unico deputato “afro” a sedere nel nostro parlamento, si tratta del solo caso, nella lingua italiana, dove il termine “nero” assume una valenza positiva. D’altronde, nell’immaginario collettivo nostrano, l’Africa è sempre associata a situazioni catastrofiche, ad emergenze umanitarie e più in generale ad ogni sorta d’accidente. Basta dare un’occhiata ai notiziari televisivi per rendersi conto che, a parte le ricorrenti tragedie dei clandestini collocate nella “cronaca nera”, la simbologia cromatica in uso tra i giornalisti del Bel Paese è infarcita di “giornate nere”, poco importa se per colpa del crollo delle borse o del traffico metropolitano. Sta di fatto che la nostra gente è portata istintivamente a pensare che l’Africa sia davvero la metafora dei mali del mondo, per colpa soprattutto dei propri abitanti in balia di guerre tribali istigate da famigerate oligarchie locali, violente per non dire prelogiche o primitive. Premesso che stiamo parlando di un continente grande tre volte l’Europa nel quale si è sedimentato nei secoli uno straordinario patrimonio valoriale, la verità è che sappiamo poco o niente di quello che succede davvero da quelle parti. Emblematico è il caso della Somalia a cui dovremmo essere legati per ragioni che affondano nel passato coloniale. Si tratta di un Paese del Corno d’Africa, in guerra praticamente dalla caduta del regime di Siad Barre nel gennaio del 1991, ridotto ormai ad un cumulo di macerie e in cui, secondo informazioni delle Nazioni Unite, la crisi umanitaria si è ulteriormente aggravata negli ultimi sei mesi con circa 3,76 milioni di persone colpite da inedia e pandemie, dei quali 1,42 milioni risultano essere profughi, mentre un bambino su cinque soffre di malnutrizione. Lo scenario è a dir poco inquietante se si considera che, stando ai puntuali resoconti di autorevoli fonti della società civile, dagli inizi di maggio 2009 sono stati circa 280mila i civili fuggiti in seguito alla escalation della violenza nella capitale. E mentre scriviamo, dovrebbero essere almeno 12mila i rifugiati, presso la città costiera di Bosasso, nella regione semiautonoma del Puntland, in attesa di buone condizioni atmosferiche, per tentare la pericolosa fuga attraverso il Golfo di Aden verso la sponda yemenita, con l’aiuto dei solititi profittatori che speculano sulle altrui sofferenze traghettando a pagamento. A scanso di equivoci, proprio perché il fenomeno migratorio deve essere colto anche qui da noi nella sua complessità, c’è da considerare che dal gennaio di quest’anno sarebbero almeno 30mila le persone fuggite via mare e quasi 500mila i profughi somali che sopravvivono in condizioni penose nello Yemen. Non è da escludere dunque che prima o poi si registreranno nuovi ingressi in Italia, preceduti da chissà quale odissea, di fronte ai quali sarebbe peccaminoso chiudere gli occhi, non foss’altro perché è gioco la sopravvivenza di gente innocente. A questo proposito è bene rammentare che la lista dei mali che affliggono la Somalia non è solo attribuibile ai dissidi interni o alla corruzione. Le pesanti ripercussioni della “guerra fredda” tra Etiopia ed Eritrea, come anche gli interessi egemonici di potentati stranieri, legati prevalentemente all’immenso deposito di idrocarburi off-shore, hanno fatto della Somalia una linea di faglia tra Oriente e Occidente, alla stessa stregua di quei territori mediorientali che galvanizzano da sempre l’attenzione della stampa internazionale. Ecco allora perché l’informazione rappresenta la prima forma di solidarietà nelle relazioni tra i popoli “con l’intento di decodificare – come scrive lo stesso Touadi – le scorie della storia coloniale e post coloniale, quei sedimenti d’incomprensione, quei “misunderstanding” di senso e di significato che hanno fuorviato per secoli i rapporti tra Europa e Africa”. Dobbiamo in sostanza smetterla di elaborare ciascuno separatamente un sapere prevaricante sull’altro che non tenga conto, nel “villaggio globale”, dell’incontro in quanto manifestazione dell’alterità. “Anche il leone deve avere chi racconta la sua storia. Non solo il cacciatore” scrive con schiettezza e lucidità lo scrittore nigeriano Chinua Achebe. Un detto ancestrale che evoca l’istanza di guardare all’Africa senza pregiudizi e stereotipi, andando al di là di una visione paternalistica, ammantata di carità pelosa. Sì perché l’Africa non è povera, ma semmai impoverita; non chiede beneficenza da parte di noi ricchi Epuloni, semmai invoca la partecipazione al “bene comune” dei popoli. La sfida dunque tra noi e loro è innanzitutto e soprattutto culturale, per superare tout court la tentazione del pregiudizio.
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