Quella del 2013 è un Africa in profonda trasformazione, segnata dalla crescita del prodotto interno lordo a livello continentale, ma anche dalle tante miserie del passato che pesano, quasi fossero una sorta di pesante fardello, sul destino dei popoli. Esse, in particolare, riconducono, da un punto di vista storiografico, al circolo vizioso che, a partire dalla debolezza dell’apparato statale, determina, non solo un’evidente incertezza dell’identità nazionale, ma anche il fallimento dei sistemi di sviluppo che dovrebbero garantire benefici ai ceti meno abbienti, fortemente maggioritari un po’ dappertutto. Ecco che allora, per quanto possa essere arguto lo sguardo analitico sull’interazione fra discorsi identitari di questo o quel gruppo, di questa o quella etnia e le politiche nazionali, gli assetti di stabilità interna dipendono ancora in gran parte dalle continue interferenze extra-continentali, non solo occidentali, ma anche sudamericane, mediorientali e asiatiche. L’ormai cronica crisi della “Res Publica”, che riguarda drammaticamente molti Paesi africani, è oggetto di una discussione complessiva che divide lo scenario tra “afro ottimisti” e “afro pessimisti”. I primi, ritengono che la via del riscatto passi attraverso l’azione decisa del cartello dei Brics. La nomina, lo scorso anno, della signora Nkosazana Dlamini-Zuma alla guida della Commissione dell’Unione Africana (Ua), va letta in questa prospettiva, trattandosi di una donna sudafricana, latrice non solo degli interessi del suo Paese, ma anche di quelli, in senso lato, dei Brics (che oltre al Sudafrica, include Brasile, Russia, Cina e India). Sul versante opposto, poi, vi sono i detrattori che considerano il continente, ancora oggi, solo e unicamente come terra di conquista. Sta di fatto che le recenti crisi in Mali, Repubblica Democratica del Congo e Centrafrica, per non parlare della questione sudanese e di quella somala, richiamano alla mente i lasciti condizionanti dell’azione coercitiva esercitata dalle ex potenze coloniali. Lasciti che hanno assunto nel corso degli ultimi cinquant’anni, a livello fenomenologico, le sembianze del cosiddetto “neo colonialismo”. Semmai, oggi, la differenza, rispetto al passato, sta nella crescita numerica degli attori commerciali che guardano con bramosia alle fonti energetiche e alle ricchezze naturali del continente. D’altronde, tutti sanno che i Paesi in cui la conflittualità è più acuta sono quelli maggiormente parcellizzati dagli interessi stranieri. E sebbene le potenze emergenti, Cina in primis, abbiano dichiarato di voler realizzare un “grande disegno per una prosperità condivisa”, all’insegna cioè del multipolarismo, che spaventa soprattutto i governi occidentali, ridimensionandone sia la leadership economico-finanziaria che le reali capacità di controllo, dall’altra, le realtà statuali africane non riescono ancora a farsi interpreti delle istanze di partecipazione e legalità rivendicate dalla società civile. Se da una parte va ricordato che le carestie continuano a mietere vittime – nel 2011 nel Corno d’Africa, lo scorso anno nella fascia saheliana – dall’altra, occorre ricordare che secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) nel 2012 il Ghana è cresciuto del 13,5%, il Niger del 12,5%, l’Angola del 10,5%. Mediamente, la crescita del Pil, a livello continentale, è intorno al 6%, anche se (dato non irrilevante) il nuovo corso dei Brics di cui scopra, ha esaltato la tendenza, in parte già in atto, alla concentrazione di elevate proporzioni della ricchezza nelle mani di una piccola minoranza, le oligarchie al potere. Una cosa è certa: la dialettica tra istituzioni e società africane, quella cioè delle reti familiari estese e il loro rapporto, antagonistico o ancillare, con lo Stato, come anche il coinvolgimento delle autorità tradizionali nei processi di riforma e nelle politiche di sviluppo e welfare, sono tutti elementi di un puzzle in cui il contributo della società civile è già oggi e sarà in futuro determinante. La graduale, a tratti contrastante e incoerente, ma pur sempre significativa crescita dei sindacati in Sudafrica, come anche la sporulazione di associazioni, gruppi e movimenti attenti al sociale, sono tutti segnali che indicano la via di un possibile cambiamento. Nessuno ha la sfera di cristallo per leggere il futuro, ma occorre, certamente, vigilare nei confronti di quei poteri, più o meno occulti, a volte dichiarati, di matrice straniera, che considerano il business un’opportunità a senso unico, solo per loro, perché – come recita un proverbio africano – “quando un leone mostra i denti non bisogna credere che stia ridendo”.
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