Che tristezza ricevere, sabato pomeriggio, una telefonata da Nairobi per essere informato del raid terroristico al centro commerciale di Westgate! E dire che qualche mese fa, quando ero passato nella capitale keniana, avevo consumato con un amico, Peter Okongo, uno snack proprio a due passi da lì. Comunque, è un fatto gravissimo che non andrebbe sottovalutato dalla comunità internazionale. Anzitutto perché richiama alla mente gli attentati del 7 agosto 1998, perpetrati da al Qaida contro le rappresentanze diplomatiche Usa a Nairobi e Dar es Salaam. Quei fatti di sangue rappresentarono, allora, la prima seria avvisaglia di una mobilitazione contro l’Occidente da parte del terrorismo islamico. Inoltre, l’azione terroristica di sabato nella capitale keniana dimostra che l’Africa Subsahariana è sempre più esposta alla contaminazione cellule jihadiste. Esse costituiscono un fattore d’instabilità per i governi locali, anche se poi continuano ad essere lautamente foraggiate dal movimento salafita di matrice saudita. E chissà perché Stati Uniti e Europa sono sempre indulgenti nei confronti, non solo della diplomazia di Riad, ma anche di altre nazioni della penisola Arabica come il Qatar… Perché fanno affari insieme? Francamente, non riesco a spiegarmelo, anche se il tema andrebbe approfondito. Occorre, poi, rilevare che il raid compiuto dai miliziani al Shabaab mette nei guai la leadership del neo presidente Uhuru Kenyatta. Anzitutto perché ha dimostrato che l’intervento militare keniano in territorio somalo, avviato due anni or sono dall’ex presidente Mwai Kibaki e confermato dal suo successore, si è rivelato inconcludente. Inoltre, ha evidenziato la debolezza strutturale dell’intelligence keniana incapace di far fronte alla minaccia terroristica. E dire che a Nairobi tutti sanno, ad esempio, che il business delle armi è fiorente nei quartieri popolati tradizionalmente dai somali, molti dei quali dichiaratamente fondamentalisti, negli usi e nei costumi. Occorre, inoltre rilevare, che le vicende giudiziarie di Kenyatta, inquisito dalla Corte Penale internazionale dell’Aja, non giovano alla credibilità della sua immagine internazionale. E sebbene i rapporti con la Cina siano fiorenti, soprattutto dal punto di vista degli investimenti – anche lungo la costa dell’Oceano Indiano, quella più esposta all’Islam radicale – Kenyatta deve far fronte ad una crisi economica determinata da diversi fattori come la corruzione del “sistema paese” e la mancanza di riforme nell’amministrazione centrale dello Stato. Il recente aumento dell’Iva in Kenya, ha prodotto un’impennata dei prezzi con consegue negative, soprattutto sui ceti meno abbienti. Il fatto, inoltre, che il governo di Nairobi sia stato costretto a ricorrere ad esperti americani, britannici e soprattutto israeliani (il titolare del centro commerciale di Westgate appartiene alla comunità ebraica di Nairobi), nel tentativo di snidare i terroristi, avrà, comunque, un prezzo politico, le cui conseguenze potrebbero generare divisioni nell’arena parlamentale, rafforzando peraltro l’opposizione. Da rilevare, inoltre, che sono molti gli esponenti politici keniani che vorrebbero far pagare le conseguenze del raid di Westgate ai rifugiati somali, dichiarando la chiusura del vastissimo campo di Dadaab, nel settore nord orientale del Kenya. E dire che la Convenzione sui rifugiati del 1951 – di cui il Kenya è firmatario – garantisce a questa povera gente il diritto a essere protetta dall’espulsione o dal rimpatrio forzato in un paese in cui la loro vita potrebbe essere in pericolo. Ma la scusa (cioè, il pretesto) per i keniani sarebbe la possibile presenza tra i profughi di gruppi terroristici. Come al solito, i “senza-terra” costituiscono l’anello debole di una solidarietà che conta solo in termini di interessi geostrategici e non umanitari. Brutta cosa davvero!
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