Mondo

Kivu: Ricordando il martirio di Monsignor Munzhirwa

di Giulio Albanese

La frustrazione regna suprema nel versante orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e più precisamente nella regione del Kivu settentrionale. La violenza dei combattimenti sul campo, le chiacchiere dei diplomatici, unitamente all’inconcludenza delle istituzioni internazionali, hanno fortemente compromesso la speranza di un popolo che chiede solo e unicamente di vivere in pace. Ma sarà mai possibile che questa povera gente debba essere sacrificata sull’altare dell’egoismo umano, come se niente fosse? Le notizie che ricevo da Goma, da Bukavu, da Kigali, attraverso la società civile e i missionari, non fanno altro che confermarmi quanto sia aberrante l’inganno perpetrato dai “signori della guerra” e da tutti coloro che acconsentono ad un simile degrado. Recentemente, ad esempio, una delegazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu si è recata sia nell’Rdc, come anche in Rwanda e in Uganda. Al centro degli incontri, l’insicurezza provocata nel Nord-Kivu dai vari gruppi armati ancora attivi, tra cui soprattutto il Movimento del 23 marzo (M23), sostenuto militarmente dal governo di Kigali e da quello di Kampala. In un comunicato diramato a Goma, capoluogo del Nord-Kivu, la delegazione Onu ha dichiarato che una soluzione militare, da sola, non risolverà completamente il conflitto, con particolare riferimento al braccio di ferro in atto tra il governo congolese e la ribellione dell’M23. A questo proposito è stata ribadita la “via politica”, con particolare riferimento ai negoziati in corso a Kampala, tra il governo congolese e l’M23, auspicando una rapida conclusione delle ostilità.

Sta di fatto che le trattative – riprese il 10 settembre scorso nella capitale ugandese, con l’impegno di tutte le parti a concluderle entro quattordici giorni – si trovano ormai in una situazione di stallo, con la complicità, non solo degli attori in campo, ma anche di quelle diplomazie, regionali e addirittura fuori dal continente, che guardano con bramosia alle immense risorse del sottosuolo congolese. Il dialogo si è, in particolare, arenato, soprattutto, quando l’M23 ha adottato una strategia, da manuale del maquillage, presentandosi come il difensore dei diritti umani, quando invece si è macchiato di indicibili crimini contro la stremata popolazione civile. È di ieri la notizia che le forze armate congolesi (Fardc) hanno riconquistato in questi giorni tre importanti località finora sotto il controllo dell’M23: Kibumba, Kiwanja e Rutshuru. Intanto, i soldati ruandesi sarebbero già pronti ad attuare “un’operazione mirata in territorio congolese” ha dichiarato l’ambasciatore di Kigali all’Onu, Eugène Richard Gasana. Questo, in sostanza significa che, al momento, l’opzione militare sembra prevalere nei fatti. Da rilevare che, da quelle parti, è anche dispiegato il dispendioso contingente dei caschi blu dell’Onu (Monusco) il cui mandato dovrebbe consistere nel disarmare i gruppi armati, estendendo la cosiddetta “zona di sicurezza” ad altri territori ad alto tasso di belligeranza. È curioso, dunque, che tale perimetro continui ad essere abbastanza circoscritto rispetto alle reali potenzialità della forza di peacekeeping in campo.
In poche battute, questo è il clima che si respira oggi nel Kivu, proprio nel giorno in cui si commemora il martirio di monsignor Christophe Munzhirwa, arcivescovo di Bukavu, avvenuto il 29 ottobre del 1996. Gesuita, difensore dei deboli, coniugò sapientemente il coraggio della denuncia all’amore nei confronti di chiunque, senza distinzione di sorta. Attingeva la forza nell’ascolto della Parola di Dio e della storia del suo popolo. A chi lo metteva in guardia dal pericolo, rispondeva: “Non c’è che un prezzo da pagare per la libertà, il prezzo del sangue”.

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