Il Ruanda era un Paese sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica mondiale quando, nell’aprile del 1994, iniziarono i feroci massacri a seguito dell’abbattimento dell’aereo del presidente Juvénal Habyarimana. Sono trascorsi vent’anni da quell’orribile mattanza occorsa nel Paese delle mille colline, ribattezzato pertinentemente da qualche cronista Paese dei mille cimiteri. Un fenomeno aberrante e senza precedenti nella storia africana che andò avanti ben oltre la soglia degli anni Novanta. Prima a morire furono centinaia di migliaia di tutsi, l’etnia minoritaria vessata dalle milizie Interahamwe, oltre a un gran numero di hutu moderati, il gruppo etnico maggioritario e fino ad allora dominante. Poi si passò alla vendetta dei vincitori che passarono all’arma bianca non solo i loro acerrimi nemici, ma anche tantissimi profughi hutu, perpetrando una tragica pulizia etnica. Dunque, anche l’attuale classe dirigente ruandese ha le sue grandi responsabilità, a partire dall’uomo forte del regime, il presidente Paul Kagame, leader indiscusso del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr). Non è un caso se il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non rinnovò nel 2003 l’incarico a Carla Del Ponte, il magistrato elvetico che guidava la procura del Tribunale Penale per i crimini in Ruanda. L’ipotesi di aprire inchieste anche sul Fpr, preannunciata dalla Del Ponte, suscitò infatti le ire di Kagame che fece pesare le sue influenti amicizie al Dipartimento di Stato Usa e al Palazzo di Vetro.
Forse mai come oggi, per onorare le centinaia di migliaia di vittime, sarebbe auspicabile promuovere una rilettura attenta di quanto avvenne, superando due tentazioni. Anzitutto quella del manicheismo che vuole dividere lo scenario tra buoni e cattivi, affermando la tesi dei vincitori, le truppe del Fpr. Furono infatti gli ex ribelli a dare vita al nuovo corso politico che certo non ha brillato in termini di democrazia. Se dunque i massacri perpetrati in quei giorni rappresentano oggi per le coscienze un monito a non commettere mai più simili nefandezze, è bene riconoscere la trasversalità delle responsabilità all’interno del Paese. Occorre poi avere l’onestà intellettuale di contestualizzare il genocidio ruandese nell’ambito più generale delle vicende che hanno segnato la tormentata Regione dei Grandi Laghi. Lungi dal voler legittimare i crimini perpetrati in patria dai ribelli hutu che, costretti alla macchia in territorio congolese, hanno spesso compiuto azioni malvagie in quella terra straniera, sarebbe ingiusto misconoscere il ruolo altamente destabilizzante ricoperto dal regime di Kigali nell’ex Zaire fino ai nostri tempi. Una cosa è certa: Kagame è sempre riuscito a convincere la comunità internazionale della bontà del proprio operato, sia sul piano della politica estera sia all’interno. Mentre nel primo caso è evidente l’espansionismo ruandese che mira ad avere il monopolio delle immense risorse minerarie del sottosuolo congolese, a livello nazionale il presidente ha il merito di aver attuato in questi anni una politica di sviluppo incentrata sui servizi e le nuove tecnologie, ma anche sulla modernizzazione delle attività agricole. Nel frattempo, si è assistito a una significativa maturazione della società civile e in particolare della Chiesa Cattolica. E proprio giovedì scorso papa Francesco ha chiesto ai vescovi del Paese di lavorare per guarire le ferite profonde che permangono nel Paese, promuovendo «il perdono delle offese e la riconciliazione autentica». Traguardi che potrebbero sembrare irraggiungibili in un’ottica umana e sono invece «un dono che è possibile ricevere da Cristo, attraverso la vita di fede e la preghiera». È certamente un cammino lungo, che «richiede pazienza, rispetto reciproco e dialogo». Ed è la sfida più vertiginosa a cui sono chiamati oggi i cattolici, che rappresentano il 65% della popolazione, e tutti gli abitanti di questo tormentato Paese. Per unire la memoria viva dell’olocausto all’impegno per la ricostruzione umana e civile.
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