Politica

Google, ma che libertà è?

di Franco Bomprezzi

Sono un utilizzatore appassionato di internet, praticamente da sempre. Non uno smanettone, né un fanatico dei software, ma semplicemente un giornalista che trova di enorme comodità documentarsi, girovagare, curiosare, leggere, scrivere, commentare, utilizzando tutti i giorni, più volte al giorno, il web. La grande forza, la dirompente crescita, di internet è rappresentata da una serie di fattori: la gratuità di moltissimi servizi (tutto ciò che è a pagamento infatti non decolla, non funziona), la velocità della connessione, la semplicità di uso per tutti, la libertà di espressione, la sensazione di essere al centro del mondo, potenzialmente letti (o visti) dall’universo intero.

Mettere freni eccessivi al web, ai motori di ricerca, ai grandi magazzini della rete dove si depositano contenuti multimediali di ogni genere (blog, chat, video, audio), non solo sarebbe sbagliato, ma è praticamente impossibile. Perciò lungi da me essere un potenziale censore, o un candido ignorante di ciò che accade nel “nuovo mondo”.

Però. La sentenza che ha condannato Google e che sta facendo tanto discutere stabilisce soprattutto il principio del rispetto della dignità delle persone e della privacy. Credo che su questo punto si debba essere tutti d’accordo. E invece leggo commenti indignati di una marea di navigatori del web che osannano la piena libertà e l’irresponsabilità dei gestori dei nuovi servizi, azzardando metafore: (“E’ come se i postini fossero responsabili dei contenuti delle lettere”, “E’ come se la Fiat fosse responsabile di un attentato fatto con una sua vettura”, e via fantasticando). E poi si ritiene che i magistrati siano ignoranti, arretrati, specchio di un Paese alla deriva, che si allontana dal Grande Progresso Mondiale.

Questa presunzione oltranzista e intransigente di stampo ingegneristico (è il mondo dei cultori delle tecniche, insofferenti delle competenze e delle responsabilità) impedisce un salto di qualità in un confronto che sia orientato a ragionare serenamente e concretamente, in un campo, quello della libertà di espressione sul web, che è in piena sperimentazione ed evoluzione. Ciò che non cambia, invece, è la sfera dei diritti essenziali delle persone, specie quelle più indifese e fragili, come nel caso del ragazzo con sindrome di Down protagonista suo malgrado del video incriminato, che risale, ricordiamolo, al 2006.

Il recente caso su Facebook, con il gruppo aperto e chiuso che proponeva il tiro al bersaglio con i bimbi Down, conferma la mia sensazione che prevalga, in questo momento, la convinzione della irresponsabilità personale e dell’impunità. Due condizioni che si verificano soprattutto perché non vengono poste delle regole chiare, semplici, condivise, di “netiquette”, ossia di educazione in rete. Prevale una gioiosa anarchia, unita alla sottovalutazione sistematica dei fenomeni negativi (si parla dei “troll” come se si trattasse in ogni caso di un fenomeno inevitabile e da tollerare, magari solo ignorandolo). C’è una diffusa insofferenza nei confronti di chiunque alzi un dito per protestare, e si pensa subito al complotto politico per favorire una censura preventiva, un cappio al collo del web.

Il rischio, secondo me, è che questa incapacità di coniugare i due diritti, la libertà di espressione e la dignità delle persone (che è la sostanza della privacy), porti a conseguenze pericolose: non solo l’imposizione di regole assurde e inapplicabili che nessuno veramente vuole, ma anche una progressiva disaffezione rispetto a un mezzo, internet, che è un potente strumento di crescita e di “empowerment” (ossia di aumento di consapevolezza dei propri diritti e delle potenzialità di vita). Il mondo della disabilità, in particolare, è strettamente legato al web, sia perché le nuove tecnologie informatiche permettono a tutti di esprimersi indipendentemente dal tipo e dal livello di deficit (fisico, sensoriale, ma anche intellettivo e relazionale), sia perché la rete sta creando competenze e luoghi importanti di documentazione e di scambio di saperi, ma anche di socialità.

Ancora una volta il giusto mezzo, dunque, e il punto di equilibrio: difficili da trovare, ma indispensabili. Perché, questo è fondamentale ricordarlo, il web è reale, non è un mondo a parte, non è il mondo degli avatar.

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