Come facciamo a rimanere insensibili di fronte alle scene di morte di queste ore? Perché devono passare per deboli, ingenui, cretini, tutti coloro che spendono il loro tempo per aiutare, accogliere, mediare, consigliare, integrare i migranti? Quando finirà questa cultura aggressiva, cinica, e brutta? Quando torneremo semplicemente a fare il nostro dovere di italiani, di gente per bene?
In questi giorni è troppo evidente il tentativo di rimuovere i sentimenti, di allontanarci dalle nostre radici, dalla storia di un Paese attraversato per secoli da decine di popoli, provenienti da Nord, da Sud, da Est e da Ovest. E’ come se avessimo paura di riconoscerci nei volti spaventati dei giovani tunisini. Vediamo le immagini ma non le guardiamo. Scorrono, diventano sottofondo. E sui giornali abbondano gli insulti, anche on line, nello spazio dei commenti. Il becerume peggiore prevale e si impone, zittisce i moderati, i cittadini normali, i volontari, i “buoni cristiani”.
Perfino la Chiesa mi pare timida (con eccezioni importanti come quella, oggi, di monsignor Montenegro su Avvenire) in difficoltà nel prendere posizione forte, umana, condivisibile, di fronte a una situazione così speciale, così evidente, di fuga dalla miseria, di ricerca di una possibile speranza per sé e per le famiglie lasciate in Africa. Non riesco a credere che ventimila, trentamila, cinquantamila migranti che attraversano l’Italia e in parte si disperdono negli altri Paesi europei possano costituire davvero una minaccia inaccettabile per il nostro stile di vita, per la nostra sicurezza, per il futuro del Paese.
Certo, esistono problemi di sicurezza, di igiene, di controllo della delinquenza che si aggrega. Ma per questo esistono, per fortuna, carabinieri, polizia, guardia di finanza, vigili urbani. Siamo in un Paese civile, ordinato, ricco. Quando ero giovane cronista, la notizia di un tunisino che ruba occhiali e portafogli alla stazione di Mestre non diventava un titolo da sparare in cronaca: il capo mi avrebbe riso in faccia. Quella era al massimo una “breve” di nera. Un trafiletto per riempire una colonna nelle pagine interne. Ho la sensazione che per pigrizia, trascuratezza, quieto vivere, attenzione alla parte vociante del Paese, molti colleghi in questi giorni rinuncino a priori al tentativo di raccontare l’altra Italia. Quella delle competenze nell’accoglienza, quella dei mediatori culturali, quella dei progetti di rete fra volontariato, istituzioni, cooperative, che quotidianamente si danno da fare, in silenzio, per “fare accoglienza”. Questo è il vero “governo del fare”. Ma non lo racconta quasi nessuno, a parte Vita e pochi altri. Perché?
Io sono convinto che mai come adesso occorra uno scatto di reni del mondo dell’informazione scritta e radiotelevisiva. Occorrono chiavi di lettura corrette, documentazione, attenzione e rispetto per le persone. Oggi il Corriere della Sera, ad esempio, racconta le storie di alcuni sopravvissuti al naufragio del barcone al largo di Lampedusa. Ne cita i nomi, ce li fa vedere, nella loro umanità, nei loro racconti, nei loro affetti, nel loro dolore. Come possiamo non emozionarci? Non sentire in quei racconti le nostre stesse paure, i nostri affetti, il nostro dolore?
Forse abbiamo paura di essere aggrediti da un’opinione pubblica che basa le proprie pulsioni sulle frasi ad effetto della parte peggiore del leghismo nostrano. Nella Lega, lo sappiamo bene, convivono concretezza e baggianate, vicinanza alla gente e volgarità. Sta a tutti noi ridimensionare il peggio e valorizzare il meglio. Torniamo, tutti insieme, a essere Italiani.
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