Politica

Perché amo il calcio

di Franco Bomprezzi

Noto sempre più spesso, nella mia pagina di facebook, commenti moralistici e quasi indignati ogni volta che io, con i miei brevi pensieri del giorno, mi occupo della mia squadra del cuore, l’Inter (e continuo a farlo anche in periodi come questo, decisamente tristerello e ancora assai incerto). L’obiezione di fondo che arriva da molti è questa: ma come fai, di questi tempi, a occuparti di gente strapagata e viziata, che ha avuto persino il coraggio di scioperare perché non volevano pagare la tassa di solidarietà? E’ un mondo finto, inutile, malato, c’è “ben altro” (sic!) di cui occuparsi, con la crisi che ci circonda… (ecc. ecc. ecc.).

Ma il fatto è che io, come tanti altri, passiamo le giornate a occuparci d’altro, eccome. Penso sinceramente di non potermi rimproverare granché da questo punto di vista. Come giornalista, ma anche come cittadino, mi dedico costantemente alla comunicazione in favore dei diritti delle persone con disabilità, mi occupo della politica in generale, cerco di raccontare storie positive di realtà sociali e di esperienze personali che meritino una segnalazione adeguata, partecipo alle battaglie collettive contro le ingiustizie e i tagli indiscriminati alla spesa sociale. Insomma mi pare perfino di essere “politicamente corretto”, il che, a volte, è pesante e anche un po’ noioso.

Ecco perché, nell’arco della giornata, ho bisogno (autentico) di evadere, di entrare in un grande romanzo popolare, quasi un feuilleton, ricco di colpi di scena, di particolari scabrosi e indiscreti, di intrighi, di congiure, ma anche di gesti coraggiosi, di passioni autentiche e viscerali, di parole forti e genuine, di insulti che durano lo spazio di un istante e si trasformano, magicamente, in sfottò divertenti e condivisi. So benissimo che si tratta di un grande business, ma anche la moda è un business, anche i viaggi, la cucina, la musica, sono business. Il calcio è lo sport che nel nostro Paese consente a tutti di aprire bocca e di sentirsi competenti (ovviamente, spesso, a torto). Allo stadio, visto che ci vado spesso, incontro persone del mondo reale, unite almeno da un coro, da una canzone, dal numero di una maglia, dall’urlo e dall’invettiva. Persone che per qualche ora danno un calcio alla paura, alla depressione, all’incubo della quarta settimana del mese (o anche della terza), alla solitudine e all’indolenza.

Mi diverto, ecco qui. Mi rilasso, non faccio male a nessuno. Scopro spesso, attorno al calcio, nei blog, nei siti dedicati alle squadre, autentici talenti letterari, persone capaci di analisi sottili, pozzi di scienza e di memoria. Resto ammirato di fronte a queste capacità, che potrebbero forse apparire persino sprecate rispetto, appunto, al “ben altro” che ci circonda.

Ma ho la sensazione che la mia scelta, sempre più convinta, di non rinunciare al tifo (ovviamente per l’Inter), è forse una possibile risposta, quasi una forma di Aventino morale, di fronte alla volgarità e all’insensatezza dei tempi, alla cattiveria del confronto sociale e politico, che non consente quasi più lo scherzo, l’ironia, la leggerezza, ma solo lo schierarsi, l’azzannarsi, l’offendersi, il diffidare sempre e comunque, lo scetticismo benpensante e mai attivo, mai propositivo, mai solidale.

Per quanto malato e miliardario, assurdo e improbabile, il calcio consente a questo Paese di restare unito, aggrappato a una storia popolare condivisa, a un sogno che pure, a volte, è capace di slanci illuminati e di generosità d’altri tempi. Perciò, chiedo perdono, ma lasciatemi in pace, lasciatemi sognare, ogni tanto, senza farmi sentire in colpa.

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