Toc. Un attimo. Il tutore ortopedico mi tradisce all’improvviso, mentre sono in piedi, in bagno, per vestirmi. La carrozzina è dietro di me. Si sgancia un piccolo perno che mi tiene dritto, in equilibrio, quando faccio quel movimento consueto, da sempre. Tirarmi in piedi sapendo di non poter mai camminare. Ma in piedi si fanno comunque molte cose con più facilità. E ormai da tanti anni sono abituato così, per i miei passaggi dalla carrozzina al bagno, al sedile di guida. Chi mi conosce sa bene come faccio, con calma, senza fretta, ma ormai stabilizzato e sicuro nei movimenti. Una fiducia che mi fa dimenticare, spesso, la fragilità delle mie ossa. Specie delle gambe, sottili e storte, venute su così, da bambino, fra una frattura e l’altra, mentre le braccia e la testa hanno avuto un altro destino, meno pericoloso, più solido. Dovrei sempre pensare con prudenza, perché so che cosa comporta, poi, la perdita dell’autonomia personale.
Tutti mi chiedono del dolore. Ma il dolore passa presto, e comunque ti aiuta a conoscere la gravità di ciò che ti è accaduto. Ho subito compreso, appena ricaduto di peso sulla sedia a rotelle, che l’unica cosa da fare, al più presto, era farmi portare al Pronto soccorso, ormai ben conosciuto, in quel bell’ospedale pubblico di Niguarda, che, nonostante tagli e ritagli, continua ad assicurare umanità e competenze anche in situazioni complesse, anche di fronte a una pressione delle emergenze che non conosce sosta.
Ho visto nelle difficoltà, e nei tempi di attesa, del pronto soccorso, il film delle nostre difficoltà di welfare. Infermieri, medici e pazienti accomunati dalla consapevolezza che tutto avviene sotto stress, con organici al limite, con posti letto che non si trovano subito, con i corridoi occupati dalle lettighe, cariche di sofferenze e di silenzi. Con i parenti fuori, ad attendere che l’interfono li strappi all’ansia e un medico in tono garbato ma fermo dica loro che cosa effettivamente è successo. Ho sentito durante la notte in corridoio più volte dire con sollievo: “Ora lo rimandiamo a casa”. Ecco, il ritorno a casa come speranza di uscire dalla paura, da una situazione dolorosa non prevista, dalle conseguenze molto spesso di banali incidenti domestici. Anziani e giovani insieme, in questa brulicante officina della salute, che non conosce pause e che meriterebbe un riconoscimento più grande, che invece viene riservato ai telefilm seriali che ci arrivano dagli States.
E poi in ortopedia, prima di approdare, oggi, in quella Unità Spinale che mi accoglie ogni volta magari perfino ironizzando sulle mie imprese poco gloriose. So che me la caverò anche questa volta, ci vorrà tempo, due-tre mesi almeno, nel corso dei quali dovrò razionalizzare e modulare la mia autonomia personale, e le funzioni della vita quotidiana, con l’aiuto competente di chi fa rete attorno a me per fornirmi soluzioni confortevoli, nei limiti del possibile. Un incidente come questo è sempre un bagno di umiltà, ti porta alla consapevolezza di una fragilità strutturale dalla quale non puoi prescindere, se non per incoscienza o dabbenaggine. O per trascuratezza determinata da un lungo impegno pubblico, per dare corpo e sostanza a progetti, programmi, battaglie, assieme ai tanti altri, persone con disabilità, famiglie, operatori, funzionari, amministratori, che in questi anni difficili stanno cercando di difendere l’essenza dei diritti, la qualità dei servizi, la correttezza nell’uso delle risorse disponibili.
Userò questi mesi per un lavoro virtuale, da lontano, ma comunque da vicino, perché oggi è possibile, grazie alle tecnologie, non perdere i contatti fondamentali, e produrre, almeno, quel po’ di pensiero che aiuta a sentirsi in qualche misura utili e produttivi. Ma d’ora in poi dovrò tener conto che sono fragile, e che devo pensare a questa realtà in modo oggettivo e realistico. La risposta virtuale è incredibile, persino commovente. Le mail, gli sms, i messaggi su facebook. Una carica di umanità partecipe che non è finta, anche se non può ovviamente trasformarsi per incanto nella soluzione dei miei problemi. Ma ancora una volta ho toccato da vicino il punto di osservazione della realtà di chi ha poca o nessuna autonomia personale. E credo che nessuno di noi se ne possa mai dimenticare. Ecco perché l’impegno non può mai interrompersi, ma solo cambiare, per un po’, la modalità.
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