Politica

Quando il pensiero è un aborto

di Franco Bomprezzi

Si sono messi in due per partorire un aborto di pensiero “filosofico”. Ho aspettato un po’ prima di scrivere. Volevo davvero capire che cosa stavo provando, dentro di me, come essere umano, come giornalista, come appassionato (in gioventù) di filosofia e di etica, come persona con disabilità. Ho voluto leggere per bene tutto l’articolo scritto da Alberto Giubilini e Francesca Minerva, due “ricercatori” italiani, per il Journal of Medical Ethics, che, ammetto, non è fra le mie letture consuete. Ci sono arrivato solo per il clamore delle stupidaggini che tale “studio” contiene, a cominciare dal titolo: “Aborto post-natale: perché il neonato dovrebbe vivere?”.

Il succo di questo articolo, scritto nel novembre scorso, letto e approvato dalla autorevole rivista internazionale di bioetica nel gennaio di quest’anno, è questo (cerco di essere letterale): “L’aborto è largamente accettato anche per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la salute del feto. Partendo dal presupposto che né i feti né i neonati hanno il medesimo status morale di persone compiute, e che il fatto che entrambi (feti e neonati) sono persone potenziali è moralmente irrilevante, e che l’adozione non è sempre nell’interesse migliore delle vere persone, gli autori argomentano che quello che noi chiamiamo “aborto post-natale” (uccidere un neonato) dovrebbe essere permesso nei medesimi casi in cui è consentito l’aborto, anche quando il neonato non è disabile”.

Bene. Quest’ultima benevola concessione alla parità dei diritti fra bimbi disabili e non, è di grande conforto. Peccato che sia poi contraddetta dal testo, nel quale molto frequentemente si fa riferimento proprio alla logica eutanasica dell’eliminazione degli errori di natura, perché i genitori potrebbero non essere in grado di farcela, e lo Stato dovrebbe comunque spendere troppo per mantenere in vita esseri malformati.

Non conosco i due ricercatori. Vorrei sperare che siano quasi dei “trolls” della bioetica, ossia dei provocatori che lanciano il sasso sul web per vedere l’effetto che fa, e quanti cerchi concentrici riescono a generare nel mondo. Se fosse giusta la mia intuizione mi aspetterei adesso una lettera di scuse, una conferenza-stampa, insomma qualsiasi cosa capace di ricondurre queste farneticazioni al livello di uno scherzo di pessimo gusto. Temo che non sia così. Perché questo pensiero estremo, nella sua forma forbita da inglese accademico, fa parte purtroppo di un bagaglio diffuso nel mondo, non solo anglosassone, ma anche dei paesi evoluti del nord Europa.

Il nazismo di ritorno, spacciato per utilitarismo, tocca corde mai del tutto sopite nel genere umano. “Ausmerzen”, vite non degne di essere vissute. Ne parlavamo tempo fa a proposito dello splendido lavoro teatrale e televisivo di Marco Paolini, in occasione della Giornata della Memoria. In tempi di crisi economica sommare le ragioni del dolore di fronte a una vita difficile che è appena nata, o che potrebbe nascere, alle difficoltà oggettive che le famiglie, per anni, dovranno affrontare per garantire cure e dignità di persona ai figli “sbagliati” o non voluti, è un esercizio meno infrequente di quanto si pensi. Altrimenti non si spiegherebbe perché una rivista seria e certamente autorevole non abbia esitato a pubblicare senza riserve un articolo così aberrante.

Il punto vero, drammatico, è questo: una posizione così stupida, che mette sullo stesso piano un infanticidio e un aborto terapeutico regolamentato dalle leggi e visto comunque come ultima e dolorosa scelta della madre, al termine di un percorso che dovrebbe essere sempre individuale e sofferto, riesce forse a conseguire un unico, micidiale, risultato: riaprire, per l’ennesima volta, lo scontro di tipo religioso attorno al tema della liceità dell’interruzione volontaria della gravidanza. Equiparare infatti l’uccisione di un feto non formato all’uccisione (ma come? Quando? Con quali strumenti?) di un neonato, è operazione che di fatto rimette in discussione soprattutto la prima parte del ragionamento, ossia quella sull’aborto. Perché è del tutto ovvio che nessuna persona dotata di un briciolo di umanità potrebbe accettare, anche solo per esercitazione teorica, l’idea di sopprimere un bimbo appena venuto al mondo.

A che serve tutto ciò? Solo a far stare nuovamente male migliaia di donne, che hanno vissuto sulla propria pelle un dramma non voluto, non desiderato, eppure reale. E a mettere in ansia chi si occupa di diritti delle persone con disabilità. Io parlo per me: stando alle farneticazioni bioetiche di questi due connazionali, non sarei qui a scrivere quel che penso, essendo nato nel 1952 con venti fratture, un corpicino del tutto imprevisto (all’epoca non esisteva diagnosi prenatale). Certo, so bene che i miei genitori non avrebbero in ogni caso accondisceso alla mia soppressione, ma so anche – dai loro racconti – che questa ipotesi, in modo molto larvato, venne formulata all’epoca, anche se sotto forma di affidamento alle cure e alla ricerca clinica. Io sono vivo “nonostante”. E vorrei tanto che oggi non si discutesse neppure di queste scemenze, se non per chiuderle in un sacchetto biodegradabile e seppellirle nel cimitero del pensiero stupido.

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