Ci mancava anche Roberto Saviano. Un monologo in prima serata da Fazio tutto dedicato a celebrare la condizione dei “diversamente abili”. Parte bene, dalla cronaca, dalla evidente ingiustizia sociale dei tagli al welfare mentre è straripante lo scandalo della politica ladrona. Passa poi a magnificare gli atleti delle Paralimpiadi e qui comincia a scricchiolare, perché li ritiene di fatto migliori degli altri campioni, quelli che non esita a chiamare “normodotati”, facendomi aggricciare la pelle. Ma è la seconda parte, il clou emotivo del suo racconto, a sgomentarmi. Parla di Petrucciani, il grande pianista jazz morto a 36 anni, anche lui – come me – massacrato alla nascita dalle fratture conseguenti all’osteogenesi imperfetta. Saviano non fa altro che tirar fuori un capitolo del suo libro, è stato sicuramente molto colpito dalla vicenda umana di Michel Petrucciani, e lo capisco. Alto poco più di un metro, mani grandi e forti, ha trasformato il suo handicap riuscendo, grazie a un talento eccezionale e a un esercizio maniacale, a diventare un virtuoso del pianoforte. Vita sregolata, troppi concerti, troppo alcol e forse non solo. Insomma il classico cliché dell’eroe maledetto, scorrono le foto, dall’infanzia in poi, donne comprese. Tutto molto bello, romantico, commovente. Ecco, Saviano ha chiarito a milioni di italiani che cosa possono fare nella vita i “diversamente abili”.
In tanti, tantissimi, si commuovono e dicono: “Che bello, finalmente in prima serata si parla di loro”. Poi leggono il mio post su Invisibili e cominciano a tentennare, molti si rendono conto che effettivamente le parole hanno un peso e anche alcuni argomenti sono un po’ forzati, per riscuotere l’applauso, la standing ovation finale del grande comunicatore che parla da solo. Io rispondo ai commenti, cerco di spiegare il mio reato di lesa maestà, una lettera aperta a Roberto Saviano che definisco “diversamente bravo”. Il post sta girando molto nei social network e si accendono discussioni, dibattiti accesi, con toni più o meno tolleranti. Ho toccato insomma un nervo scoperto, un tasto sensibile. Bene.
Temo fortemente che l’invasione dei “diversamente abili” sia quasi inarrestabile. Io ci provo a spiegare che la parola giusta è “persona con disabilità”, come dice l’Onu, come dicono le associazioni, come dicono le persone. Ma niente, sono considerato un sofista, che guarda il dito e non vede la luna. Che importa dividersi sulle parole, suvvia? Andiamo alla sostanza. Siete o non siete persone con un sacco di problemi in più? Siete o non siete abili ogni giorno nell’affrontare la vita, anche quando è difficile? E allora, che cosa volete, “voi”? Siete “diversamente abili”. Ecco, tiè.
No. Io non ci sto. Non sono e non sarò mai “diversamente abile”. Durante la giornata posso essere un giornalista, un comunicatore, un consulente, un amico, un fratello, un amante, un compagno, un tifoso, persino un malato (se mi viene la febbre oppure la bronchite), un rompiscatole, un invalido civile (se devo utilizzare le leggi vigenti), ma non riesco a capire in che cosa sarei “diversamente abile”. Faccio fatica a vestirmi da solo, la sedia a rotelle la so usare ma non sono un drago, la pancia rallenta i movimenti, so usare lo smartphone ma faccio fatica con il touch screen, cerco di convivere con la mia disabilità ormai da tanti anni, ma non me ne faccio un vanto. Non voglio essere etichettato per questo. Mi chiamo Franco, penso che basti. E invece è vero: la gente ti guarda e ti etichetta, sempre più. Più di prima, più di dieci anni fa, forse ancor più di trent’anni fa. Forse perché il mondo della disabilità è più organizzato, visibile, combattivo. Forse perché riusciamo a parlarne, a discuterne, anche nelle difficoltà di un welfare che boccheggia.
Ma una cosa è certa: non autorizzo nessuno a pensarmi o a definirmi come “diversamente abile”. Diversamente un corno. Io sono bravissimo per i fatti miei. E lo so. Senza bisogno di concessioni benevole, tanto meno da Roberto Saviano in prima serata.
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