C’era una volta il flipper. Mi piaceva, lo ammetto. Io in carrozzina ero comunque costretto a giocare in coppia, al bar dello spritz (ero a Rovigo negli anni dell’adolescenza). Il flipper era magico, per i suoi rumori pazzeschi, per l’abilità che si doveva comunque acquisire, sia nel lancio delle palline (rigorosamente a molla, in quegli anni, attorno al ’69) che nello sballottamento della macchina durante la discesa della bilia nelle buche che si accendevano e sparavano numeri sul contatore, oppure per impedire che la pallina ti fregasse prima del tempo, riducendo la durata del “game”. Forse pensate che io oggi stia esaltando il gioco d’azzardo. No, sto solo ricordando l’enorme differenza tra quel gioco e questi. Un abisso morale e materiale.
Andiamo con ordine: il flipper ingoiava una moneta da 50 lire, se ricordo bene. E tra spintoni, urla, qualche parolaccia, risate e sfottò del pubblico che si appassionava alle imprese del campione di turno, si giocava almeno dieci-quindici minuti. Poi, sfiniti, ma a volte soddisfatti di aver raggiunto il proprio record di punti, si lasciava il posto ad altri. Se avanzava ancora una moneta, la si infilava nel juke-box, e si cercava la canzone del cuore, quella che ci aveva fatto innamorare in quel periodo, di quella ragazza che manco ti degnava di uno sguardo.
Altri tempi, si dirà. Nostalgia idiota di un gioco comunque stupido e ripetitivo. Certo c’è una parte di rimpianto della gioventù. Ma non è questo il punto. Il fatto è che il flipper esercitava un’attrazione accettabile per i giovani, all’uscita della scuola, o prima di tornare a casa la sera. Non ci rimettevamo la paghetta, assolutamente no. Era uno strumento utile al barista per fare un po’ di soldi, ma era anche momento di socializzazione, magari banale, ma semplice e quasi innocuo.
Il punto è che non c’era ingordigia in quell’affare. Le slot, le sale giochi ovunque, sono tutt’altra cosa. Ma anche il gioco on line, più subdolo perché consente addirittura di non farsi vedere, e dunque di evitare persino la vergogna, il pudore, che forse in qualche caso potrebbe ancora frenare questa dissennata corsa alla speranza di un arricchimento rapido, che non avviene mai, mentre di sicuro c’è solo il tunnel della dipendenza. Che cosa è cambiato nella nostra società in questi anni? Perché ci siamo ridotti così? Il gioco fa parte della vita umana, non è di per sé un demone, se gestito socialmente in modo limpido, e sorretto da anticorpi, familiari e amicali, che impediscano la deviazione verso la dipendenza.
E’ cambiato il rapporto con il denaro, con la ricchezza, in modo simmetrico rispetto al crescere del disagio e della povertà. C’è una continua esaltazione, subliminale e non, del ruolo salvifico del denaro. Parliamo sempre e solo di denaro, anche per le transazioni di welfare, anche per i servizi alla persona. Tutto si sta riducendo ad uno scambio diseguale di ricchezza. E qui forse c’è la chiave psicologica della rincorsa alla vincita facile, capace di rovesciare in un attimo un declino di reddito continuo e angoscioso.
Ma c’è un fenomeno, poco esplorato, che mi fa pensare da qualche tempo, senza però riuscire a farlo emergere in modo chiaro. Quante saranno le persone con disabilità che dissipano i propri risparmi giocando d’azzardo, magari on line, attirati da pop-up che si aprono a ogni pie’ sospinto visitando siti web normalissimi, e comunque vengono pubblicizzati da banner che hanno ormai invaso internet e i social network? Perché non viene fuori nessuna notizia relativa a persone con disabilità affette da ludopatia? Siamo sicuri che – miracolosamente – proprio questo segmento della popolazione sia esente dal virus? E perché mai? Io mi auguro che la sensibilizzazione di questi giorni, di questi mesi, lo splendido lavoro che sta facendo Vita.it e il movimento No Slot, portino a decisioni drastiche e a iniziative concrete di sensibilizzazione.
Nel frattempo ricordo che ero bravo a flipper, ma non un campione. Al massimo un discreto giocatore di doppio, con il mio compagno di banco al liceo (ora un bravissimo giornalista). Che in questi giorni sta lottando con il suo cuore che lo ha quasi abbandonato, ma ce la farà. Questa è un’altra storia, del tutto personale. Ma altrettanto vera. Forza Gerry, non è tempo di “game over”.
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