Politica

Ricchi e poveri

di Franco Bomprezzi

Una brava cronista del Corriere ha raccolto le battute nel foyer della Scala, la sera della prima. Battute banali, molto glamour, il ritorno in grande stile degli abiti da sera e dei gioielli, una scelta condivisa da molti, uomini e donne di censo, di non vergognarsi del lusso, ma di esibirlo come si faceva una volta. Fra questi, una stilista, Raffaella Curiel, avrebbe testualmente affermato: “Se i ricchi non spendono, i poveri non lavorano”. Bene. Sincera e grezza come una carta vetrata nelle parti intime. La sensazione sgradevole è che tale spudorata considerazione per giustificare e celebrare il lusso ignorante (che nulla ha a che vedere con la passione legittima per la lirica, e neppure per l’eleganza autentica) oggi può essere pronunciata senza che nessuno se ne avveda e la enfatizzi.

L’ho fatto io su facebook e su twitter, chiedendo agli amici di commentare liberamente. Ne è uscito uno spaccato sociologico, come si dice in questi casi. In gran parte ci si indigna, si lancia un improperio alla signora, si prendono le distanze. Alcuni invece sostengono che in fondo ha ragione, perché se i ricchi non investono e non consumano, la ricchezza del Paese diminuisce e dunque i poveri saranno sempre più poveri. Molto più in là non si va. C’è dunque tanta stanchezza, forse rassegnazione, di fronte all’arroganza di un ceto che non sta brillando per sensibilità sociale, e neppure per attenzione agli investimenti sociali. Il calo delle raccolte fondi, del quale molti altri bloggers giustamente parlano, è anche dovuto proprio alla “stitichezza” dei ricchi, che si limitano, da qualche tempo, a operazioni di facciata, a comunicazione di maniera, a sponsorizzare campagne che abbiano comunque il massimo di ritorno sui rispettivi brand.

Non mi pare sia un atto un new deal, nel quale la parte ricca del Paese fa da volano alla ripresa e tende la mano a chi è rimasto indietro. Altra notizia rimasta senza troppi commenti, è quella del laboratorio cinese di Vigevano, molto simile al tugurio di Prato, nel quale si è scoperto che gli “schiavi” lavoravano non per paccottiglia a basso prezzo, ma per fornire prodotti a marche di alta moda (ma non siamo stati resi edotti di quali siano i marchi  italiani che hanno sfruttato questo lavoro indecente). Il nesso fra le due situazioni mi pare evidente. Non sono un seguace della Quarta Internazionale, penso che si sappia. Ma anche essendo solo una persona liberale, credo che si debba fare uno sforzo per cucire i pensieri, in questo cupo periodo di crisi, mettendo insieme la solidarietà, l’umanità, il rispetto per chi è a disagio, senza lavoro, senza speranza.

Non me ne voglia la signora Curiel, che tanto non credo sarà fra i miei lettori. E in realtà del suo pensiero non me ne importerebbe nulla, se non avessi la sensazione che dalla sua bocca sono uscite parole condivise da molti dei suoi vicini di palco. Due secoli fa, dopo parole abbastanza simili, in Francia si scelse la strada della rivoluzione. Niente paura. Qui non succederà. E’ Natale, quando viene viene.

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