Ancora una volta sembra che il mio organismo, apparentemente fragile, stia superando i marosi di una bufera violenta e improvvisa. La paura assume l’aspetto del sudore freddo che ti invade in quegli istanti nei quali realizzi che stai effettivamente male come mai ti era capitato prima, e non per un dolore, ma per la mancanza di qualcosa di talmente immateriale da non essere quasi mai apprezzata come dovrebbe: il respiro.
Ero improvvisamente incapace di compiere qualsiasi gesto senza avere il cuore in gola e il respiro strozzato, breve, sincopato e aritmico, incontrollabile al punto da temere di non averne più a disposizione. Di qui la decisione di affidarsi alle competenze collaudate dei servizi di urgenza. Prima l’ambulanza, poi il pronto soccorso, codice giallo, una prima visita, la maschera, l’ossigeno, e poi la tac: embolia polmonare. Diagnosi secca, precisa. Una fucilata nelle orecchie, perché la parola fa effetto, spaventa. Ma un secondo dopo realizzi che una spiegazione così chiara di quanto è accaduto apre subito le porte della speranza: posso guarire e tornare come prima.
E così oggi scrivo con il tablet in ospedale e organizzo i miei pensieri ascoltando con gioia il mio compagno di viaggio appena ritrovato: il respiro. Soffio di vento interno, misterioso messaggero e ambasciatore della nostra esistenza. Prometto di ascoltarne di più i consigli che costantemente mi invia e che io, presuntuosamente ho spesso ignorato.
La vita ricomincia ogni volta e ti sorride.
Nessuno ti regala niente, noi sì
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