Ora mi darete della reazionaria, lo so, ma la vicenda dell’ospedale universitario di Padova che ha cambiato il braccialetto identificativo del padre mettendo la scritta “partner” mi ha messo una tristezza infinita. Perché anche questa volta, mi sembra, le ragioni degli adulti hanno avuto la meglio su quelle dei piccoli.
Cominciamo dalle parole. La definizione di “padre” riguarda la relazione che il bambino ha con il genitore. La definizione di “partner”, invece, esclude il bambino e porta alla luce la relazione tra due adulti.
L’ansia del politically correct entra in sala parto e sovverte anche le situazioni più elementari: tu chi sei per questo figlio?
Nel caso specifico, comprendo che la compagna della partoriente non abbia voluto indossare il braccialetto che la indicava come “padre”, perché evidentemente non lo è e non potrà mai esserlo. Ma almeno avrebbe potuto essere indicata come “madre non biologica”.
Sarebbe stata un’eccezione, magari sempre meno eccezionale, creata nella consapevolezza che ogni componente di una famiglia si assume una responsabilità nei confronti di quel bambino, promette di accoglierlo ed amarlo anche all’interno di un nucleo non convenzionale.
Sarebbe stata una soluzione di buon senso, perché avrebbe lasciato a tutti gli altri la soddisfazione di essere chiamati con il loro nome.
Una chiarezza necessaria per ogni bambino che vede la luce. E che dovrebbe essere un soggetto – non un oggetto – di diritto.
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