Mondo

Il trionfo di Obama e dei tanti “Obama” sudamericani

di Paolo Manzo

La vittoria schiacciante di Barak Obama nella corsa alla Casa Bianca era stata preannunciata così qualche settimana fa dal presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva che, direttamente, era sceso in campo con una posizione chiara in merito al voto dello scorso 4 novembre. “Questa crisi tra i vari benefici che porterà farà eleggere Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America, che non è poca cosa”.

L’intenzione di voto di Lula era stata espressa durante un evento organizzato da CartaCapital, settimanale brasiliano diretto dal genovese Mino Carta che premiava le attività sociali più meritevoli delle principali imprese operanti nel gigante sudamericano. Di fronte al gotha dell’economia nazionale e sotto lo sguardo divertito di un altro genovese, ovvero il ministro dell’Economia Guido Mantega che nell’ultimo vertice del G-20 sedeva alla destra di Bush immortalato dai flash dei fotografi (anche uno scatto può dimostrare il ruolo di key player del Brasile nell’attuale crisi), Lula aveva sottolineato come l’elezione di Obama, primo nero alla presidenza degli Stati Uniti, sarebbe stata l’ennesima dimostrazione del cambiamento in atto nel continente americano.

Ma la rivoluzione dell’elezione di Obama, primo nero all times alla presidenza degli Stati Uniti, è solo l’ultimo cambiamento americano perché, a differenza di quando era solo un “giardino di casa”, oggi il Sud America ha “dettato i tempi” ai vicini del Nord avendo “già eletto due volte un operaio metalmeccanico in Brasile, un indio in Bolivia e un vescovo in Paraguay. Eleggere un nero negli Stati Uniti sarebbe il massimo” aveva dichiarato con un largo sorriso Lula, accompagnando alle sue parole una mimica che ha strappato applausi perfino ad una platea che vedeva in prima fila, tra gli altri, i presidenti e i CEO per il Sud America di storiche multinazionali quali Ibm, Nestlé e McDonald.

L’appoggio dell’ex sindacalista al candidato democratico eletto il 4 novembre non stupisce nessuno perché, come ha spiegato lo stesso Mino Carta, “Lula è l’Obama brasiliano, è normale che a pelle lo abbia preferito a McCain”. Ma non è, comunque, solo una questione di “pelle” dal momento che Obama ha già fatto sapere di essere disposto a “sedersi allo stesso tavolo con chiunque lo voglia, per discutere del futuro del pianeta”. Compresi i cosiddetti membri dell’“asse del male” disegnato da Bush & co a cominciare dai due presidenti di Venezuela e Bolivia, Hugo Rafael Chávez Frías ed Evo Morales Aymara, accomunati a Obama tra l’altro anche dal colore della pelle scura che in nulla assomiglia a quello dei precedenti presidenti latinoamericani che sino agli anni Novanta avevano usato il loro continente per sperimentare le più rigide (e “innovative” a detta loro) ricette neoliberali.

Lula, anche se la sua origine non è india come quella di Morales e la sua carnagione non è olivastra come quella di Chávez né mulatta come quella di Obama, è consapevole di rappresentare un elemento nuovo importante, forse rivoluzionario, nel panorama politico verde-oro, sino al 2002 dominato dall’elite bianca appartenente alle 400 famiglie che fondarono San Paolo e ai “colonnelli” di Bahia e del Nordest. L’elezione di Lula rispetto al passato ha segnato una discontinuità storica, soprattutto per il simbolismo che rappresenta la sua figura. “Il messaggio di Lula e Obama è uguale. In Brasile il 95 % della popolazione che vive con meno di 400 euro al mese s’identifica nel suo presidente e tutti sono convinti che ce la possono fare ad ascendere socialmente se c’è riuscito un operaio metallurgico che ha perso un dito in una pressa”, confida Armando Vasone, viceministro dell’Economia negli anni Ottanta. “La stessa empatia simbolica c’è stata negli Stati Uniti, dove un afroamericano figlio di un keniota povero ha trionfato nella corsa alla Casa Bianca. Se ce l’ha fatta lui ce la possono fare tutti hanno pensato gli elettori americani, soprattutto oggi in una crisi dalle dimensioni simili a quella del 1929”.

Naturalmente lo stesso ragionamento può essere elaborato per Morales in Bolivia, un paese dove oltre il 60 per cento della popolazione è di origine aymara o quechua e che mai nella storia aveva avuto un presidente indio. O per Chávez, arrivato al potere nel 1998 grazie all’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione di origine “negra”, tradizionalmente esclusa dalla vita politica ed economica del Venezuela. Per questo, tra le tante conseguenze, la vittoria di Barak Hussein Obama potrebbe riposizionare gli Stati Uniti in sintonia con i cambiamenti in atto già da qualche anno nel resto del continente, a cominciare dall’America Latina


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