Tra cento anni l’85% degli alberi che compongono l’Amazzonia, il più grande polmone verde del mondo, saranno solo un ricordo. Questo il risultato di uno studio britannico presentato ieri a una conferenza sul clima a Copenhagen, pubblicato sulla rivista Nature Geoscience e ripreso oggi dai prestigiosi quotidiani londinese The Guardian e The Indipendent. La causa della moria di piante millenarie non saranno tanto i tagliatori di legna clandestini, le multinazionali della soia o i biocarburanti da canna da zucchero, bensì il surriscaldamento globale che, secondo lo studio britannico “farà naufragare i tentativi di salvare la foresta pluviale amazzonica. Un aumento di temperatura di poco più di 1 grado porta a una perdita futura della foresta amazzonica. Anche l’aumento di 2 gradi spesso citato già porta alla perdita del 20-40%. Una crescita di 3-4 gradi, invece, metterà ko l’85% della foresta. In base a qualsiasi calendario, dobbiamo intendere la perdita dell’Amazzonia come irreversibile”, hanno spiegato gli autori della ricerca. Naturalmente preoccupatissimi gli ambientalisti presenti in Danimarca: “La cosa allarmante oggi è il livello di certezza, perchè le osservazioni del mondo reale sono finite nei modelli di computer – ha dichiarato Tony Juniper, attivista e candidato dei Verdi britannici, aggiungendo – Non c’è più tempo da perdere. I governi devono collaborare”. Per ora, tuttavia, di considerare l’Amazzonia patrimonio mondiale dell’umanità in Brasile non c’è nessuno che ci pensi e ogni tentativo in tal senso è sempre stato considerato un attentato alla sovranità nazionale. A tal proposito vale la pena ricordare come rispose nel 2004 l’allora ministro di Lula, Christovam Buarque, a chi negli Stati Uniti gli chiedeva cosa ne pensasse dell’idea. “Prima dell’Amazzonia credo che New York, in quanto sede delle Nazioni Unite, debba essere internazionalizzata. Per lo meno Manhattan dovrebbe appartenere a tutta l’umanità così come Parigi, Venezia, Roma e Londra. Comunque, se gli Stati Uniti vogliono internazionalizzare l’Amazzonia per il rischio di lasciarla nelle mani dei brasiliani, allora dobbiamo internazionalizzare tutti gli arsenali nucleari statunitensi. Anche perché loro hanno già dimostrato di essere capaci di usare queste armi, provocando una distruzione che è migliaia di volte superiore ai deplorevoli incendi appiccati nelle foreste brasiliane”. Oggi Buarque non è più ministro ma la reazione del governo brasiliano all’idea di internazionalizzare l’Amazzonia rimane la stessa, come ha lasciato intendere in più occasioni il ministro per gli Affari Strategici Mangabeira Unger, coordinatore del Progetto Amazzonia Sostenibile che, al momento, sta dando risultati sotto le attese e lo stesso Lula. Se dunque a Copenhagen i riflettori sono puntati sul Brasile a causa della ricerca britannica, nel paese del samba l’inglese probabilmente più celebre, ovvero il Principe Carlo, ha ricordato a tutti da Rio de Janeiro che presto “i cambiamenti climatici si tradurranno nella fuga di molte persone da catastrofi quali la siccità e le inondazioni, dalla produzione incerta di cibo e la mancanza di acqua. Questo aumenterà l’instabilità sociale e i potenziali conflitti. In altre parole influirà sul benessere di ciascun uomo, ciascuna donna e ciascun bambino sul nostro pianeta”. Un disastro, a meno che non si intervenga subito e tutti assieme.
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