Non profit

Non siamo bancomat!?

di Bernardino Casadei

Spesso i responsabili degli enti d’erogazione esprimono l’esigenza di non essere trattati come bancomat. Si tratta di un’esigenza giusta e comprensibile. Se però viene chiesto a quegli stessi responsabili di descrivere la loro attività, la loro risposta non è molto diversa da quella che potrebbe dare un: abbiamo erogato x euro a favore di y iniziative.

La causa di questa contraddizione deve essere cercata nelle difficoltà che il mondo della filantropia istituzionale incontra nel cercare di definire il proprio valore aggiunto per cui alla fine il suo contributo viene ridotto alla quantità di risorse erogate. Si genera così un circolo vizioso per cui l’unico criterio diventa il rapporto fra i costi di gestione e il valore delle erogazioni, con conseguente disincentivo alla crescita qualitativa degli enti d’erogazione che si trasformano in elemosinieri sino a quando, stufi di questo ruolo,  decidono di diventare enti operativi.

Il vero compito del Consiglio d’Amministrazione non è dunque quello di individuare il progetto migliore, magari grazie a qualche magico algoritmo che è stato a lungo cercato di trovare come novella pietra filosofale, ma piuttosto quello di definire la propria missione, trasformando il mandato statutario in una visione operativa che tenga conto sia delle esigenze degli eventuali donatori, sia delle opportunità che il continuo evolversi della società non cessa mai di presentare. Non è un caso che nelle fondazioni internazionali con maggiore esperienza raramente il Consiglio delibera sulle singole erogazioni. Il ruolo del Consiglio, soprattutto quando rifiuta il ruolo di elemosiniere, è infatti quello di approvare le strategie, scegliere i responsabili operativi e individuare gli indicatori che lo aiuteranno a capire se effettivamente la rotta è quella corretta, senza naturalmente illudersi che una qualsiasi equazione, anche la più sofisticata, possa sostituire il giudizio umano.

Se non si vuole trasformare gli enti d’erogazione in elemosinieri o in semplici bancomat e di fatto rinunciare a gran parte del valore aggiunto che il mondo della filantropia istituzionale può generare per la crescita della nostra comunità civile, è indispensabile riscoprire un’evidenza che però troppo spesso dimentichiamo, ossia che le erogazioni non sono il fine, ma il mezzo per perseguire un fine che deve essere definito in modo rigoroso, anche se con l’umiltà di chi riconosce che la società è ben più complessa di ogni nostra interpretazione, nella consapevolezza che i risultati trascenderanno sempre i nostri sforzi.

Naturalmente dato che i fini saranno diversi e specifici per ciascuna realtà, diversi saranno anche gli indicatori che ognuno sceglierà per descrivere in modo sintetico le proprie attività. Accanto però ai fini ed indicatori specifici sarebbe importante individuare una finalità che possa in qualche modo coinvolgere l’intero mondo della filantropia istituzionale. Si tratta di un compito difficile, ma strategico per l’intero settore.

Forse una via per conseguire questo obiettivo potrebbe essere quella di partire da un’immagine che sorge spontanea quando si parla della filantropia istituzionale, ossia l’immagine del lievito. Le risorse della filantropia istituzionale sono infatti molto limitate ed incapaci di risolvere qualsiasi problema, esse però, se utilizzate strategicamente, possono essere dei catalizzatori in grado di mobilitare importanti risorse aggiuntive. Forse se fossimo i grado di raccogliere il valore delle risorse aggiuntive che i contributi degli enti d’erogazione sono stati in grado i catalizzare avremmo un proxy in grado di darci un’idea del valore aggiunto della filantropia istituzionale del nostro Paese.

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