E se la tanto invocata crescita non fosse la soluzione? Siamo ritornati al livello di reddito della seconda metà degli anni ottanta, ma non ricordo che in quel periodo due italiani su tre avessero difficoltà ad arrivare alla fine del mese. E allora non basta parlare di crescita, dobbiamo domandarci quale crescita.
Quando la crescita non è la conseguenza quasi involontaria del lavoro dell’uomo, ma diventa un obiettivo primario, si tende a dar vita a comportamenti volti a rompere i legami personali per sostituirli con rapporti funzionali, molto più coerenti, questi ultimi, con una razionalità formale la quale permette di assolutizzare l’efficienza operativa. Questo sviluppo però non è neutrale; ha un prezzo che nel tempo può rivelarsi maggiore dei suoi benefici. Rischiamo di trasformarci in quelle imprese che, per massimizzare il profitto, distruggono i fondamenti stessi dalle loro sostenibilità e quindi, prima o poi, falliscono.
Una persona con molti contatti, ma poche relazioni, finisce per trasformarsi in un individuo isolato e quindi fragile. Basta il minimo imprevisto per metterlo in difficoltà. Se un tempo poteva contare su una rete in grado di assisterlo con flessibilità ed efficacia, oggi ha bisogno di un’infrastruttura complessa e costosa. Certo tutto ciò aumenta il PIL, ma anche i costi per la società, con un sostanziale peggioramento della qualità della vita, dato che raramente tali servizi hanno le stesse flessibilità e qualità di quelli generati dai rapporti personali.
La rottura di questi legami non può puoi non avere un effetto negativo su quel capitale sociale, essenzialmente fatto di relazioni e di fiducia reciproca, che è condizione fondamentale per la crescita civile ed economica della nostra società. L’esperienza dei distretti mostra in modo evidente come esso rappresenti un importantissimo fattore di produttività. L’avere eroso questo patrimonio, non solo facilita i comportamenti antisociali come la corruzione, ma mina le nostre capacità produttive.
Una società esclusivamente pensata per individui, il cui unico scopo è quello di soddisfare le proprie utilità marginali, non è affatto neutrale, come essa afferma di essere, ma genera infiniti impedimenti per tutti coloro che vorrebbero dare il proprio contributo alla costruzione del bene comune e che, invece, si trovano confrontati con norme e prassi, le quali, non contemplando il loro impegno o contemplandolo solo marginalmente, di fatto li ostacola, come ben sa chi opera nel privato sociale.
Una società senza legami, in cui ogni individuo è un soggetto isolato sostanzialmente impotente, non solo è una società in cui ben difficilmente solidarietà e sussidiarietà potranno prosperare, ma è anche una società disumanizzante, in quanto costringe la persona a rinunciare a quella dimensione relazionale che è condizione imprescindibile per la propria umanità. I rapporti diventano necessariamente funzionali, gli altri si trasformano in un inferno e noi stessi perdiamo la nostra dignità di fini per ridurci a strumenti o ostacoli di chi cerca di soddisfare in modo effimero, effimeri bisogni.
Ne consegue quindi che il mondo degli enti d’erogazione, se non vuole diventare corresponsabile di questo processo di disumanizzazione, deve avere il coraggio di rivedere le proprie priorità. Non si tratta più di finanziare le iniziative più efficienti nella produzione di beni e servizi, ma di mobilitare le proprie risorse per costruire delle oasi in cui la persona possa effettivamente affermare la propria umanità, luoghi pensati per aiutare ciascuno di noi a dare il meglio di noi stessi e a contribuire, con le proprie capacità, alla costruzione di un bene comune, frutto dell’involontaria composizione di infinte visioni, spesso diverse e a volte incompatibili fra di loro.
Non è improbabile che le energie, la speranza e l’entusiasmo che simili realtà potranno generare finiranno per produrre, come involontaria conseguenza, proprio quella crescita che altrimenti rischia di rivelarsi un’astratta chimera.
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