Molti sono ancora convinti che la filantropia istituzionale abbia essenzialmente un ruolo ridistributivo. Compito del profit sarebbe quello di generare ricchezza, mentre quello del non profit dovrebbe essere quello di ridistribuirla ai meno fortunati. In tutto ciò la filantropia non dovrebbe essere altro che una modalità attraverso la quale coloro che hanno avuto successo restituiscono parte delle loro ricchezze alla società nei confronti della quale sono in qualche modo debitori. Niente di più falso e lontano dalla realtà: la filantropia istituzionale è invece un investimento in grado di generare ricchezza in quanto le attività da essa sostenute promuovono reddito, occupazione, capitale sociale.
Un contributo fondamentale alla crescita economica nasce dal ruolo che la filantropia istituzionale può svolgere nel promuovere lo sviluppo di quel capitale sociale che è condizione fondamentale per rafforzare la competitività del nostro Paese. Non vi è analista che non consideri la perdita di fiducia uno dei fattori fondamentali della crisi presente. La filantropia istituzionale, fondandosi sul dono, è espressione di fiducia. Il dono genera quelle relazioni umane capaci di rompere quel circolo vizioso fatto di depressione e sospetto reciproco che finisce per scoraggiare lo spirito imprenditoriale anche dei meglio intenzionati. Inoltre, grazie al sostegno che viene dato ad iniziative che favoriscono la coesione sociale, contribuisce a ridurre le tensioni e nel contempo le preoccupazioni di chi sa che, in caso di bisogno, potrà contare su una qualche forma di sostegno e non sarà abbandonato a se stesso.
Più concretamente, il privato sociale, anche grazie al supporto ricevuto dalla filantropia istituzionale, si sta rivelando un’importante opportunità di lavoro soprattutto per le giovani generazioni. In un momento di crisi come l’attuale, esso è riuscito, meglio di altri, a conservare posti di lavoro. In prospettiva, la crescita dei bisogni sociali dovuti a fattori demografici, come l’aumento dell’età media e le difficoltà che incontrerà la pubblica amministrazione nel gestire direttamente i servizi sociali, imporranno un’importante sviluppo di questo settore che però, per essere sostenibile, avrà bisogno di poter contare, oltre che sui trasferimenti pubblici e sui ricavati dalla vendita di beni e servizi, anche sul sostegno della filantropia istituzionale. Secondo il Rapporto sul mercato del lavoro 2010-2011 pubblicato dal CNEL “il Terzo settore vale il 6% dell’occupazione continentale […] con punte del 13% in Olanda e Belgio. I dati sono in continua crescita, l’occupazione è prevalentemente femminile (60%) e giovanile (25% sotto i 30 anni, 55% tra i 30 e i 40, 20% gli over 40)”. Stimolare questo processo può rivelarsi, per la nostra economia, altrettanto strategico delle tanto invocate politiche industriali.
Il contributo forse più importante che la filantropia istituzionale può offrire alla crescita del nostro Paese deve essere cercato nella sua capacità di mobilitare e riattivare energie che altri soggetti non sarebbero in grado di catalizzare. Non si tratta solo delle risorse collegate alle donazioni e al volontariato, risorse che altrimenti rischierebbero di rimanere inutilizzate o di trasformarsi in comportamenti asociali se non addirittura antisociali, ma anche delle energie che, grazie a tali investimenti, possono essere mobilitate dalla valorizzazione del nostro patrimonio culturale e ambientale piuttosto che dai soggetti svantaggiati. La filantropia istituzionale sta imparando a considerare questi ultimi come risorsa da valorizzare e non come problema da risolvere. Grazie ai programmi finanziati giovani destinati a diventare un peso sociale possono trasformarsi in un’opportunità per l’intera comunità, disoccupati che hanno ormai perso ogni speranza possono riprendere a lavorare, anziani abbandonati a se stessi possono riscoprirsi utili e diversamente abili possono sviluppare al meglio le loro abilità. Tutto questo non significa solo importanti risparmi per l’erario; esso diventa lavoro, reddito, PIL e soprattutto dignità, quella dignità che una Repubblica fondata sul lavoro dovrebbe sempre avere come faro, come bussola in grado di indirizzarne ogni suo agire e che troppo spesso viene invece barattata con qualche forma di rendita più o meno meritata.
Se però troppi sono ancora convinti della funzione ridistributiva e non produttiva della filantropia istituzionale e dell’intero privato sociale, una certa responsabilità è sicuramente nostra. Quanti fra gli stessi enti d’erogazione si comportano come elemosinieri che erogano contributi e non fanno investimenti e quante fra le organizzazioni non profit chiedono, quando non pretendono, sussidi senza però mai cercare di definire quale possa essere il loro reale impatto sociale! Non si tratta di rincorrere un’astratta efficienza, ma di prendere coscienza di quello che è il nostro reale contributo nel perseguimento del bene comune, collocando la nostra missione specifica in una visione più ampia e ponendo le basi per quelle collaborazioni da tutti invocate, ma che stentano a svilupparsi, anche perché, tutti concentrati nell’erogazione di servizi, ci dimentichiamo che, estrapolati da un più ampio contesto volto a promuovere la dignità della persona, essi rischiano di ridursi a ben poca cosa, così da meritarsi un sostegno solo in momenti di abbondanza.
Non è perciò un caso che siano molti a credere che in periodi d’austerità bisogna necessariamente rinunciarci, mentre, in realtà, una riflessione seria e responsabile dovrebbe convincerci dell’esatto contrario. Forse invece di investire le nostre energie per rivendicare i nostri diritti dovremmo imparare a illustrare e a spiegare le nostre ragioni, magari per scoprire una società pronta ad ascoltarci e a sostenerci, soprattutto se sapremo elaborare quelle prospettive e quelle speranze che i tecnicismi dominanti non sono manifestamente in grado di generare.
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