La presente crisi sta riportando d’attualità la necessità di confrontarsi con il tema della povertà, problema che la società del benessere e la crescita economica ha ridotto solo marginalmente e che ora si ripresenta in tutta la sua virulenza, anche nei Paesi più ricchi come il nostro. In realtà il tema è stato a lungo sottovalutato, forse perché lo sviluppo ci ha dato l’illusione di essere sulla strada giusta per debellarla, permettendoci di distogliere lo sguardo dai dati che invece ci mostravano come essa non si riduceva affatto, ma tendeva a cronicizzarsi.
L’illusione di sradicare la povertà attraverso l’individuazione e l’eliminazione delle cause che ne sono responsabili non ha purtroppo generato i risultati sperati. Così tutta la storia moderna è costellata da continue guerre contro la povertà, guerre che però troppo spesso si sono trasformate in guerre contro i poveri, i quali dovevano scomparire dalla vista comune, anche attraverso la loro reclusione in ben congeniate strutture.
Queste guerre avrebbero dovuto sostituirsi a quella che è sempre stata la modalità comune con cui cercare di lenire le sofferenze che questa piaga non può non generare: l’assistenza. Contro di essa si levavano gli strali di chi l’accusava e tuttora l’accusa di favorire una mentalità da assistiti e di prestare il fianco ad abusi da parte dei “falsi poveri” in grado di approfittare di tali opportunità a scapito di quelli che un tempo venivano chiamati i “poveri vergognosi”, ossia quelle persone che, per senso di pudore e dignità, si rifiutavano di ostentare le loro miserie.
Al di là dell’inadeguatezza di questa analisi, che ricorda quella sui falsi invalidi che periodicamente incontriamo sui mezzi di comunicazione di massa, dobbiamo riconoscere che la pura assistenza non sembra la soluzione adeguata. Essa infatti finisce per drenare risorse sempre più consistenti e, soprattutto in un momento di crisi come l’attuale, non può che apparire come un costo, un costo che la società nel suo complesso potrebbe considerare troppo gravoso.
Un simile approccio rischia però di essere miope, oltre che inumano. Il fatto che in una società nascano gruppi crescenti di persone che si sentono escluse ed emarginate, genera necessariamente una condizione di forte instabilità con le conseguenze negative per la tenuta dell’intero sistema che è facile immaginare. Ciò è particolarmente pericoloso per una democrazia. Questa situazione genera delle masse di popolo sovrano che possono essere facilmente strumentalizzate per la conquista del potere.
Bisogna quindi trovare un’altra strada, strada peraltro già da tempo seguita da chi si occupa realmente degli emarginati. Non si tratta di eliminare la povertà e nemmeno di assistere i singoli poveri, ma di affermarne la loro dignità. In altri termini si tratta di trasformare quello che a tutti può apparire come un costo, in un investimento capace di generare risorse per l’intera comunità.
Il povero è evidentemente una persona che, di norma, non riesce a valorizzare le proprie potenzialità e quindi a dare un suo contributo al bene comune. Le sue energie si trasformano così in un costo per la collettività. Ne consegue che se venissero rimossi quegli ostacoli che impediscono loro di esprimersi in modo produttivo si avrebbe, in termini meramente economici, un duplice vantaggio: da un lato la possibilità di ridurre l’entità dei sussidi sociali e dall’altro la creazione di valore aggiunto per l’intera collettività, anche se naturalmente il vero beneficio sarebbe in termini di promozione della dignità della persona.
L’investimento in questo settore genera un altro importante beneficio in termini di aumento del capitale sociale. Una delle modalità più efficaci per contrastare la povertà consiste nel generare reti di solidarietà fra le persone che vivono in una determinata comunità, incrementando così quella fiducia che è il vero fondamento di ogni sviluppo realmente sostenibile.
Infine, creare opportunità affinché ciascuno possa donare tempo, competenze, risorse per aiutare il nostro prossimo ad affermare la propria dignità significa offrire a tutti i donatori la possibilità di dare un senso alla propria esistenza, vivere relazioni veramente umane perché non strumentali, sperimentare emozioni autentiche. In ultima analisi, significa soddisfare quei bisogni profondamente radicati nell’essenza della natura umana, a cui la nostra società moderna, nella sua presunzione, non riesce a rispondere se non in modo illusorio; dando così un contributo fondamentale per superare il malessere profondo che sta minando le fondamenta della società del benessere.
La filantropia istituzionale ha risorse troppo limitate per pensare di poter sradicare la povertà dalla nostra società o per assistere tutti coloro che ne hanno bisogno. Essa però potrebbe svolgere un ruolo unico nel promuovere la dignità dei singoli poveri, sia sperimentando nuovi modalità che potranno valorizzare i trasferimenti pubblici, sia favorendo un più ampio coinvolgimento dell’intera collettività nel perseguimento del bene comune. Per questo però è necessario un profondo ripensamento dei propri criteri. Non si tratta più di indirizzare i propri finanziamenti in funzione dei pasti caldi serviti o dei posti letto assicurati, ma di come questi pasti e questi letti si integrino in un processo volto a promuovere la dignità del singolo, permettano la costituzione di reti di solidarietà in grado di coinvolgere anche coloro che poveri non sono, sviluppino quella cultura del dono e della reciprocità da cui dipende il futuro della nostra civiltà.
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