Periodicamente i mezzi di comunicazione dedicano ampi reportage volti a illustrare i peccati del non profit. Al di là della descrizione di frodi che naturalmente posso capitare anche in questo mondo, sono tre i punti che di norma attirano l’attenzione dei giornalisti:
1) la remunerazione dei dirigenti, anche se i norma è sempre molto più bassa di quella di analoghe figure che operano negli altri settori;
2) la quota delle donazioni che serve per finanziare le campagne di raccolta fondi;
3) i costi di struttura.
Personalmente sono convinto che i limiti di un settore che è destinato a ricoprire un ruolo fondamentale in alcuni degli ambiti più strategici per la vita del nostro Paese come l’assistenza, la formazione, la ricerca e la cultura siano esattamente opposti a quelli denunciati in queste inchieste, ossia:
a) come può un settore che non è in grado di remunerare adeguatamente i propri collaboratori, ma che spesso identifica proprio nelle basse paghe il proprio vantaggio competitivo, attirare le risorse umane qualificate di cui ha bisogno per dare risposte adeguate alle pressanti esigenze di una società in crisi?
b) come si può sperare di coinvolgere la comunità per mobilitare quelle risorse che sono necessarie per garantire la sostenibilità economica di iniziative che non possono sorreggersi solo con la vendita di beni e servizi, ora che i trasferimenti pubblici sono destinati a ridursi drasticamente, senza investimenti adeguati?
c) in che modo queste organizzazioni possono valorizzare al meglio le proprie risorse e potenzialità uscendo dallo stato di emergenza perenne che impedisce loro di sviluppare qualsiasi forma di pianificazione, se non si dotano di un’infrastruttura adeguata?
Si tratta di considerazioni banali, ma il fatto che persone di sicura intelligenza non le facciano è indicativo di un problema culturale che il privato sociale deve affrontare se non vuole condannarsi ad un ruolo di marginalità, proprio quando la società ha un così evidente bisogno del suo contributo.
Da parte loro le organizzazioni non profit devono certo liberarsi da quella mentalità di erogatori per conto terzi, per cui l’unico vero obiettivo è quello di produrre il servizio nel rispetto degli standard richiesti al minor costo possibile, per imparare a definire e a comunicare quale sia il loro vero impatto in termini di benefici non solo economici e sociali, ma anche morali e civili. Non credo però che quest’attività, per quanto fondamentale e indispensabile, sia sufficiente.
Noi viviamo in una società che se, in nome della mano invisibile del libero mercato, ritiene che i vizi privati possano trasformarsi in pubbliche virtù, sembra rifiutare l’idea che le virtù pubbliche possano generare anche benefici privati; quasi che la giustezza, la nobiltà, la bellezza di una qualsiasi azione dipendesse non dal suo valore intrinseco, ma dal fatto che colui che la compie possa riceverne qualche beneficio. Non ci si domanda più se un’azione sia giusta o sbagliata, ma esclusivamente quale interesse ci sia dietro. Con questo non si vuole negare il sano realismo di chi, soprattutto in un mondo falso e ipocrita come il nostro, ci consiglia di chiederci cui prodest?, ma ricordarci come l’assolutizzazione di questa impostazione rischia di non cogliere la realtà e quindi di rivelarsi altrettanto ingenua della posizione che vuole criticare.
Nel privato sociale questo approccio implica di fatto che solo gli eroi, i santi o i martiri potrebbero dedicarsi al perseguimento del bene comune, in quanto questa scelta imporrebbe una rinuncia totale a se stessi e alle proprie esigenze, rinuncia che solo esseri eccezionali possono fare. Gli altri possono tranquillamente concentrarsi esclusivamente sul perseguimento dei propri interessi, per poi eventualmente destinare una parte dei loro utili per progetti d’utilità sociale, per cui Carnegie poteva trattare in modo disumano i propri operai e nel contempo scrivere il Vangelo della Ricchezza.
Per contrastare questa vita a partita doppia, la nostra tradizione culturale ci insegna che alla base dell’impegno sociale non vi deve essere il sacrificio, ma la misericordia. Per dedicarsi al bene comune non è necessario fare voto di povertà. Non solo il bene comune non è sempre in contrasto con l’interesse privato, ma spesso l’uno dipende dall’altro, in un processo di rafforzamento reciproco, anche se, naturalmente, non è sempre facile trovare la giusta composizione di esigenze in cui i punti di tensione sono evidenti.
Per questo, invece di correre dietro ad astratti indicatori che non dicono nulla, ma che rischiano di essere fuorvianti, sarebbe molto meglio che i giornalisti, ma anche i program officer delle fondazioni d’erogazione, trovassero il tempo per verificare se le organizzazioni che perseguono finalità d’utilità sociale sono consapevoli del loro ruolo e del loro impatto nella costruzione del bene comune. Solo così sarà possibile innestare un processo che ci aiuti ad affermare la nostra dignità umana, qualunque sia il settore in cui siamo chiamati ad operare.
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