Non profit

Superare la crisi

di Bernardino Casadei

Oggi sono comuni e diffuse le lamentele sulla mancanza di risorse, mancanza a cui, si afferma, sarà possibile supplire solo attraverso la crescita. In realtà, la crescita in sé non è garanzia di benessere; se non è sostenibile da un punto di vista sia ambientale che sociale, essa può facilmente trasformarsi in un rimedio peggiore del male. Una crescita che genera disgregazione sociale finisce infatti per privarci di tutti i servizi che una comunità coesa o anche, più semplicemente, il buon vicinato ci garantiscono gratuitamente. Lo sanno bene le coppie con figli che si trasferiscono lontano dai propri genitori, le quali possono constatare come il maggior reddito è spesso più che compensato dai maggiori costi per procurarsi servizi normalmente di qualità infinitamente inferiore rispetto a quelli di cui avrebbero potuto godere senza alcuna spesa se fossero rimasti a casa.

In realtà, prima di imbarcarci in politiche di sviluppo, sarebbe opportuno chiederci come sia mai possibile che una società estremamente ricca come la nostra non abbia risorse. Il capitale finanziario è praticamente infinito tanto che chi acquista titoli di Stato tedeschi è disposto ad accettare interessi negativi. Le competenze e gli strumenti tecnologici di cui possiamo godere hanno delle potenzialità incalcolabili. La disoccupazione, specie quella giovanile, ma anche la presenza di tanti anziani ancora in grado di dare un proprio contributo alla loro comunità mettono a disposizione un enorme capitale umano. Eppure, malgrado tutte queste risorse che giacciono inutilizzate, i bisogni non soddisfatti sono tantissimi e in continua crescita.

Forse, invece di ripetere stancamente i luoghi comuni sulla crescita, bisogna chiedersi come evitare che l’atomizzazione che contraddistingue la nostra società impedisca di catalizzare tutte queste risorse che, proprio perché divise e separate, si trasformano da opportunità in un onere sociale. In pratica, bisogna chiedersi se veramente l’interesse privato sia l’unico catalizzatore possibile o se invece non ve ne sia un altro che la modernità si è rifiutata di prendere in considerazione e che invece potrebbe rivelarsi, soprattutto in un momento come questo, estremamente fecondo. L’esperienza mostra come l’interesse privato non sia in grado di catalizzare tutte le energie presenti in una società, ma anche come esso non sia l’unico sentimento morale in grado di mobilitare energie ed impegno.

Accanto all’interesse privato esiste anche il dono e la generosità, dono che è in realtà è molto più presente nelle stesse imprese commerciali di quanto gli economisti siano disponibili ad ammettere. Se, chi opera in un’impresa cessa di metterci del proprio, ossia di fare quello che travalica il suo mansionario semplicemente perché è giusto e per la soddisfazione personale che un tale impegno necessariamente genera, l’impresa è destinata a fallire. Il dono non è un dovere, una sorta di obbligazione morale, il dono è la modalità attraverso la quale ognuno di noi può dare una risposta ad alcune delle esigenze più profonde della persona umana: il bisogno di senso, di relazioni e di emozioni per non citare che quelle più evidenti. Il dono quindi, e lo dimostrano infinite opere, è in grado di catalizzare energie, impegno e competenze; esso può generare sviluppo, posti di lavoro e addirittura entrate per le casse dello Stato; il dono può quindi rimettere in moto l’economia, forse meglio e più delle tante invocate grandi opere.

Perché questo catalizzatore possa operare è però necessario creare un ambiente favorevole ossia sviluppare un’infrastruttura sociale pensata per promuovere la dimensione relazionale della persona. Oggi viviamo invece in una società che accetta acriticamente il presupposto elaborato da Hobbes per cui l’uomo non è naturalmente in relazione con l’altro, ma stabilisce tali rapporti esclusivamente per ragioni strumentali. Le leggi, le prassi, le politiche sono quindi pensate in funzione di questo presupposto e, di fatto, da un lato favoriscono proprio l’emergere di comportamenti opportunisti e, dall’altro, ostacolano chi voglia donare se stesso in una dimensione che vada oltre la sfera strettamente privata. La sviluppo dell’intermediazione filantropica, attraverso la costituzione di fondazioni di comunità, ha quindi come obiettivo quello di creare una simile infrastruttura sociale. Esse non nascono per raccogliere soldi, ma per aiutare i singoli a vivere la stupefacente esperienza del dono come opportunità per affermare la propria umanità. Le risorse che potranno essere catalizzate, le opere e i beni e servizi che grazie ad esse potranno essere prodotti non sono il fine, ma le conseguenze dell’attività della filantropia di comunità.

L’esperienza di questi anni sembra però indicarci che, perché il catalizzatore possa sviluppare le proprie potenzialità non è sufficiente creare un ambiente favorevole e dotarsi di un’infrastruttura che tolga tutti quegli ostacoli di natura amministrativa, culturale e gestionale che impediscono al dono di manifestarsi, è anche necessario dotarsi di un innesco, ossia di una qualche prospettiva in grado di risvegliare questo sentimento che è come sepolto sotto le macerie di secoli di una speculazione che ha di fatto negato la dimensione divina della persona umana. Ora questo innesco lo possiamo trovare proprio nella povertà, nel dolore, nella sofferenza di chi è meno fortunato e che, proprio per questo, può suscitare quella compassione che ci permette di manifestare ciò che di più nobile alberga nel nostro cuore.

Il povero, prima di rappresentare un problema sociale con cui siamo chiamati a confrontarci, è un’opportunità che ci viene gratuitamente offerta per affermare la nostra dignità, per riscoprire la nobiltà che è in noi, per vivere pienamente la nostra umanità. Paradossalmente, ma non troppo per chi, al di là della propria fede, non può non dirsi cristiano e non riconoscere nel povero l’immagine di Cristo, ossia il senso più vero della propria esistenza, è proprio la povertà che può innescare quelle energie e quelle risorse di cui abbiamo bisogno per ridare slancio alla nostra civiltà e quindi porre le basi per quella crescita, non solo morale e civile, ma anche economica e sociale di cui oggi tutti sentiamo il bisogno. Il piacere di fare qualcosa di bello, di dar vita a relazioni umane perché non strumentali, di vivere quelle emozioni autentiche che solo il dono può generare, dipende dal fatto che ci venga presentata l’opportunità concreta di dare un risposta reale a una delle tante sofferenze che ci circondano e che troppo spesso non consideriamo, non necessariamente per egoismo, ma per semplice ignoranza o per senso di impotenza.

Risorse, catalizzatore, ambiente favorevole, innesco tutto ciò non è però sufficiente senza la presenza di quello che potremmo definire l’imprenditore sociale. L’imprenditore sociale non si distingue dal normale imprenditore per una maggiore umanità e neppure per l’assenza di lucro soggettivo. Anche in una normale impresa il profitto non è un fine, ma una condizione e una conseguenza. Quando il profitto si trasforma in fine il fallimento si avvicina inesorabilmente. Quello che, a mio avviso, contraddistingue l’imprenditore sociale è la sua capacità di utilizzare come catalizzatore proprio quella dimensione del dono che invece nell’economia capitalistica viene spesso ignorata. A differenza del normale imprenditore esso non deve limitarsi alla vendita di beni e servizi, ma può integrare le proprie entrate con sovvenzioni pubbliche, contributi da parte di fondazioni private, donazioni e volontariato.

Concretamente, l’imprenditore sociale è in grado di rendere sostenibile da un punto di vista economico attività che, se fondate sul solo interesse personale, non lo sarebbero, in quanto, le risorse generabili dalla vendita di beni e servizi non sono in grado di compensare i costi di produzione. Grazie alla combinazione di risorse che di norma teniamo separate, è possibile spalancare nuovi orizzonti alla sviluppo economico e sociale, catalizzando almeno una parte delle tante energie che oggi rimangono inutilizzate. Si tratta di una modalità operativa volta a sfruttare la plurima valenza che possono avere le attività economiche. Oltre a rispondere alle esigenze specifiche di singoli individui, esse hanno spesso una valenza sociale il cui perseguimento può essere d’interesse per le istituzioni pubbliche e nel contempo possono mobilitare l’emozioni e la disponibilità a donare di cittadini, che riconoscono in quell’attività un valore per cui vale la pena impegnarsi.

Si tratta di un approccio che non solo viene concretamente praticato in tante occasioni, ma che sta generando un crescente interesse da parte delle grandi imprese, le quali, attraverso il concetto di valore condiviso, stanno trasformando la filantropia, da un costo a cui dedicare una quota degli utili a fine anno, in una parte integrante della strategia volta a garantirsi la propria sostenibilità nel lungo periodo. Paradossalmente sono proprio gli enti nonprofit a faticare a cogliere queste potenzialità. Basti pensare come, per lungo tempo, le cooperative sociali, che sono onlus di diritto e che quindi possono raccogliere direttamente donazioni, hanno rifiutato la possibilità di sfruttare a pieno tali potenzialità, mentre le imprese sociali non hanno ancora capito come, collaborando con un intermediario filantropico quale è una fondazione di comunità, possono garantire ai propri donatori quei benefici fiscali che non possono offrire direttamente.

“Felice il crollo se la ricostruzione sarà più bella” diceva Sant’Ambrogio. La crisi esiste ed è dolorosa, ma pensare di affrontarla rilanciando quei comportamenti che l’hanno generata rischia di rivelarsi sterile e frustrante. Invece di invocare risorse forse dovremmo concentrare la nostra attenzione nel come valorizzare le risorse che ci sono e che troppo spesso giacciono inutilizzate. Il dono può essere la leva che ci farà sollevare il mondo. Approfondirne le potenzialità, non come palliativo in momenti di emergenza, ma come fondamento della coesistenza civile, può aiutarci a riscoprire quella speranza di cui abbiamo un così evidente bisogno, senza dimenticare che l’obiettivo ultimo non è e non può essere la soluzione dei problemi sociali che ci affliggono, questa potrà esserne un frutto, ma non il fine. Il vero e unico fine deve consistere nel mettere in condizione ciascuno di affermare la propria umanità, la propria bellezza, la propria dignità, perché, come diceva Søren Kierkegaard, “il genere umano ha la peculiare caratteristica che, essendo il singolo fatto a immagine e somiglianza di Dio, il singolo è più importante del genere”.

L’Assemblea di Assifero che si terrà il 7-8 giugno a Milano sarà occasione anche per approfondire questi aspetti al fine di individuare modalità concrete per trasformare la filantropia e la cultura del dono che la sostiene in fattore di sviluppo economico e sociale.

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