La filantropia istituzionale è una goccia del mare. Se si confrontano le risorse che essa è in grado di mobilitare con i problemi e i bisogni a cui cerca di dare una risposta, apparirà a tutti evidente, come tali risorse siano assolutamente irrisorie. Questo naturalmente non vuol dire che essa sia inutile. Il mare è fatto di tante gocce e che chi opera nel settore può giustamente trovare proprio nell’essere una goccia la legittimazione del suo agire. Dobbiamo però ammettere come gran parte del mondo della filantropia ha considerato questo ruolo come riduttivo e si è sempre differenziato dalla beneficenza in quanto sarebbe stato in grado di sradicare la cause dei problemi sociali, individuando soluzioni più o meno definitive.
Per decenni la via che la filantropia istituzionale ha percorso per conseguire questo risultato è stata quella di selezionare e testare le soluzioni più interessanti, nella speranza che, una volta provata la loro efficacia, sarebbe stato poi possibile replicarle e diffonderle in modo capillare. Negli Stati Uniti, dove nel perseguimento di questa strategia sono stati mobilitati miliardi di dollari e dove sono stati finanziati migliaia di bellissimi progetti, ci si sta però rendendo conto di come l’impatto sistemico di tutto questo lavoro sia stato molto limitato se non addirittura nullo.
La causa di questo sostanziale fallimento deve essere cercata nel fatto che lo Stato, ossia l’entità che meglio di ogni altra poteva mobilitare le risorse necessarie per finanziare la riproduzione dei vari servizi, non ha svolto, se non in modo molto parziale, questo ruolo e, ora che i bilanci pubblici sono in forte crisi, una simile prospettiva appare impossibile. Esso nasce anche dal fatto che la gran parte dei problemi sociali sono multidimensionali e quindi influenzati da un’enorme quantità di fattori che non possiamo in alcun modo controllare e che sono in continuo mutamento, onde per cui, l’esito di un determinato programma in un determinato contesto storico, non ci garantisce nulla circa il suo esito quando essa verrà replicato in contesti che saranno necessariamente diversi.
Il problema però più rilevante che rende l’applicabilità di questo approccio molto limitata, deve essere cercato nel fatto che l’esito della maggior parte delle iniziative di carattere sociale dipende da un fattore che non è replicabile, ossia l’empatia che si stabilisce fra i vari soggetti coinvolti, la quale sola è in grado di permettere di attivare quelle energie che sono presenti nel soggetti in difficoltà. Senza la loro attivazione ogni iniziativa è infatti destinata al fallimento. Se questo è vero, e tutta l’esperienza sembra dimostrarlo, concentrarsi sulle procedure e sugli standard, i quali certo possono essere replicati, non serve a quasi nulla nel conseguire l’impatto ed anzi l’implementazione di soluzioni sempre più complesse e sofisticate rischia di rivelarsi controproducente.
Davanti alla constatazione del sostanziale fallimento di un approccio volto a cercare singole soluzioni, la filantropia istituzionale statunitense non è certo rimasta con le mani in mano. Così, invece di finanziare progetti con la speranza di trovare soluzioni, sempre più spesso le fondazioni concentrano la loro attenzione su due direzioni: da un lato cercano di utilizzare le loro risorse per influenzare le politiche pubbliche, dall’altro le impiegano per finanziare iniziative con l’obiettivo di rafforzare la società civile e la sua capacità di generare autonomamente le risposte di cui sente la necessità.
La prima strada che viene spesso identificata con l’advocacy, anche se naturalmente può prendere moltissime vesti, si sta rivelando enormemente efficace in termini di mobilitazione delle risorse. Da questo punto di vista il ritorno sugli investimenti è enorme. Il National Committee for Responsive Philanthropy ha calcolato come un investimento complessivo in questo settore di 231 milioni di dollari abbia mobilitato risorse per 26,6 miliardi di dollari. In pratica ogni dollaro ne ha generati altri 115. Questo risultato non deve però farci dimenticare alcuni rischi di tale approccio e in particolare quello di generare una sorta di filantrocrazia che, senza alcuna legittimazione se non quella dei soldi di cui dispone, si arroga il diritto di influenzare le politiche pubbliche. Con questo non si vuole negare la fecondità dell’approccio, ma ricordare a chiunque voglia seguire questa strada che è opportuno che sia consapevole di un simile rischio.
Lo sviluppo della società civile ha come fine quello di rendere le organizzazioni che la animano veramente autonome. Non sono i burocrati e neppure i program officer delle fondazioni coloro che possono trovare le soluzioni ai problemi sociali. Per questo il compito delle fondazioni è quello di mettere coloro che li vivono quotidianamente e che si trovano in prima linea nelle migliori condizioni per affrontarli. Questo obiettivo viene perseguito essenzialmente seguendo tre direttive principali: la promozione dell’imprenditoria sociale, il rafforzamento dell’autorevolezza degli enti non profit, l’impatto collettivo, ossia la capacità di coordinare grandi coalizioni eterogenee nel dare risposta ad una comune esigenza.
Ciò che caratterizza l’imprenditoria sociale non deve tanto essere cercato nell’assenza di lucro in senso soggettivo e neppure nella diversa struttura organizzativa di tali enti, aspetti che pure esistono, ma che non colgono, a mio avviso, la vera essenza del fenomeno, ma nella possibilità che essa ha di combinare, oltre alla vendita di beni e servizi, i finanziamenti pubblici, i contributi da parte della filantropia istituzionale, le donazioni e il volontariato. Questa opportunità che è preclusa alle altre imprese, permette loro di rendere sostenibili attività che altrimenti non lo sarebbero, evitando che risorse giacciano inutilizzate, generando lavoro e dando risposte a bisogni che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti. La venture philanthropy, che in Italia è autorevolmente rappresentata da Luciano Balbo e dalla Fondazione Oltre, sto dimostrando come la filantropia possa dare un contributo rilevante alla diffusione di tale modalità operativa.
Lo stimolo che la filantropia istituzionale sta dando agli enti senza finalità di lucro affinché si concentrino sull’impatto, anche attraverso un opportuno utilizzo dei dati; la decisione da parte di molti di loro di utilizzare le tecniche di valutazione non per giudicare l’operato degli enti, ma piuttosto come opportunità di apprendimento finalizzata al conseguimento di risultati oggettivi; la crescente consapevolezza che il semplice rispetto degli standard non garantisce il conseguimento dell’impatto desiderato; stanno aiutando molto organizzazioni a emanciparsi da un ruolo che le vedeva come semplici fornitori della pubblica amministrazione. Generare impatto in ambito sociale significa innanzitutto trovare le modalità affinché i portatori dei problemi si trasformino nella loro soluzione e per far questo è necessario che si crei un rapporto umano che possa generare fiducia e in cui l’operatore abbia l’autorevolezza necessaria per trovare, di volta in volta, la risposta specifica al problema. Tale autorevolezza può essere conseguita solo se l’esperienza quotidiana viene raccolta in modo sistematico per poi essere analizzata affinché diventi conoscenza e quindi saggezza. In un mondo dominato dalla necessità di conseguire un’astratta efficienza in nome di parametri, di norma, altrettanto astratti, spesso solo la filantropia istituzionale è in grado di mettere a disposizione le risorse finanziarie necessarie per innescare un simile processo.
Infine la multidimensionalità dei problemi rende illusorio ogni tentativo di elaborare singole soluzioni. Solo un approccio coordinato che operi contemporaneamente su più livelli può conseguire risultati positivi. I singoli progetti, per quanto ottimi in sé, finiscono di norma per non avere alcun impatto a livello sistemico. L’analisi delle esperienze che hanno conseguito i migliori risultati mostrano come esse siano caratterizzate da 5 elementi fondamentali: una visione comune elaborata da responsabili di organizzazioni provenienti da tutti i settori interessati al problema (profit, non profit, pubblici e privati); un set di indicatori condivisi che vengano sistematicamente raccolti; delle strategie operative mutualmente rinforzanti fra i partecipanti; una forte attività di comunicazione fra i soggetti coinvolti e con la comunità nel suo complesso; una struttura di supporto che possa coordinare tali attività. La filantropia istituzionale ha già mostrato come essa possa svolgere un ruolo fondamentale nel sostenere proprio quest’ultimo elemento, senza il quale ogni tentativo di conseguire un impatto collettivo, non può che rivelarsi velleitario.
In questo momento di crisi in cui molti vedono nella filantropia istituzionale una sorta di bancomat, piuttosto che un cerotto con cui cercare di tamponare le difficoltà presenti in attesa che l’intervento della pubblica amministrazione, piuttosto che gli automatismi del mercato riprendano ad operare in modo adeguato, il nostro settore ha la possibilità di elaborare nuovi orizzonti e dare alla collettività quelle prospettive che sole possono riaccendere la speranza e quindi generare la forza e le energie necessarie per superare la crisi. Mentre i più ripetono stancamente modalità operative che sono in realtà responsabili delle difficoltà che viviamo, la filantropia istituzionale può offrire un punto di vista nuovo ed originale, ma affinché questa opportunità possa tradursi in realtà, essa deve avere il coraggio di riflettere su se stessa, porsi nuove domande ed essere disponibile a modificare, anche radicalmente, le proprie modalità operative, così da individuare indicatori in grado di misurare il proprio contributo al benessere comune al di là dei soldi che annualmente eroga.
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