Molti sono ancora convinti che la filantropia istituzionale abbia essenzialmente un ruolo ridistributivo. In realtà la maggior parte delle erogazioni sono pensate come dei veri e propri investimenti in grado di generare, accanto ai benefici sociali, anche reddito, occupazione e perfino entrate fiscali. Così, secondo un rapporto[1] recentemente pubblicato da The Philantropic Collaborative i 37,85 miliardi erogati nel 2010 dalle fondazioni statunitensi genereranno 8.888.624 posti di lavoro, $570,56 miliardi di PIL e $117,96 miliardi di entrate fiscali.
Già questi sintetici dati mostrano le grandi potenzialità che questo settore ha nel promuovere la crescita e lo sviluppo. In particolare esso può mobilitare quelle risorse, peraltro molto ingenti, che né il libero mercato, né l’intervento pubblico sembrano in grado di valorizzare a pieno e ciò senza considerare i benefici per l’economia collegati alla crescita del capitale sociale e della fiducia che sono, di norma, una delle conseguenza più rilevanti degli interventi delle fondazioni.
In altri termini, è forse arrivato il momento di superare quella dicotomia pubblico-privato, egoismo-altruismo che tuttora domina il dibattito pubblico e a cui si informano le norme vigenti, ma che si sta dimostrando poco feconda. Tutti i problemi che il concetto di ente commerciale pone nella gestione delle attività senza finalità di lucro non ne è che un esempio, così come le difficoltà che incontra la normativa sull’impresa sociale ad essere applicata nel nostro Paese e ciò malgrado la nostra società sia ricca di organizzazioni che tale idea incarnano. Bisogna riconoscerlo, non è vero che bene comune e interesse privato siano necessariamente in contrapposizione, al contrario è proprio la sinergia fra questi due aspetti che si rivela, di norma, la condizione più feconda per lo sviluppo di una società degna di questo nome.
Così oggi sono sempre meno le persone che donano per dovere sociale, quasi dovessero saldare un debito di riconoscenza o sentano l’esigenza di tacitare la propria coscienza. Sono invece molto più numerosi coloro che trovano nel dono una via per cercare di soddisfare alcuni bisogni fondamentali dell’essere umano, bisogni a cui la nostra società non sembra capace di dare delle risposte adeguate. Si pensi solo all’esigenza si dare un senso alla propria esistenza, a quella di vivere relazioni non strumentali o anche a quella di provare emozioni autentiche, necessità a cui una società basta sulla mercificazione e strumentalizzazione reciproca non può dare una risposta, ma che invece possono essere soddisfatti proprio dall’esperienza del dono, il quale non è più vissuto come un sacrificio, ma piuttosto come un’opportunità per vivere pienamente la propria umanità.
Ora, questo dono, che alcuni potrebbero chiamare egoistico, non solo non cessa per questo di produrre benefici alla collettività, ma, rispetto a quello che si riduce ad un mero atto di rinuncia, è, di norma, molto più fecondo. In questo dono, che la tradizione cattolica identificava con la carità, la persona infatti investe tutto se stessa. Non ci si limita ad aprire il portafoglio o a firmare un assegno, ma si mobilitano tutte le proprie migliori energie, in quanto si sperimenta concretamente come in ciò effettivamente si riceva cento volte tanto. Del resto non vi è donatore che non ammetta che, da questa sua rinuncia, egli riceva molto di più di quello che ha dato.
Un processo analogo si sta verificando anche nel mondo delle imprese. La filantropia cessa di essere una mera forma di responsabilità, una sorta di dovere imposto dalle convenzioni sociali o dalla pressione della comunità nella quale essa opera, per trasformarsi in una leva strategica per conseguire i propri obiettivi ed in particolar modo garantire la propria sostenibilità. Da quando Michael Porter ha pubblicato il suo articolo sul valore condiviso[2], sono sempre più numerose le imprese che riconoscono come vi siano ampi spazi di intersezione fra i loro interessi ed il bene comune. Del resto, davanti alla globalizzazione e alla forte competizione internazionale che ne deriva, dovrebbe essere a tutti evidente come il successo di un’impresa dipenda fortemente, oltre che dalle proprie competenze e capacità interne, anche dall’ambiente nell’ambito del quale essa opera.
Le economie esterne non sono più semplicemente date dalla possibilità di scaricare su altri i propri costi, come avviene con l’inquinamento e altri comportamenti negativi che è giusto reprimere, ma anche dalla presenza di valide infrastrutture, dall’esistenza di un sistema giudiziario che operi in tempi certi e con equità, dalla capacità del sistema scolastico di formare adeguatamente le nuove generazioni. Senza tutto ciò e senza una diffusa coesione sociale che si trasformi in fiducia e tranquillità per tutti, diventa estremamente difficile, soprattutto in settori ad alto valore aggiunto, mantenere livelli di produttività adeguati.
Davanti a questa evidenza, le imprese che non vogliono rimanere passive e aspettare pazientemente un risolutore intervento pubblico in un’attesa, che, in questo momento storico, rischia di durare fino alle calende greche, hanno un alternativa: o creare tutto al loro interno, cercando, per quanto possibile, di proteggere i propri pubblici di riferimento fondamentali dalle pressioni esterne o sposare il principio di sussidiarietà e quindi decidere di svolgere un ruolo attivo nella creazione di una società migliore e quindi più adatta anche al proprio sviluppo.
Per coloro che vogliono perseguire questa seconda strada, la filantropia istituzionale può rivelarsi uno strumento estremamente versatile e potente. Da un lato, essa facilita le forme di collaborazione con altre tipologie di soggetti sia pubblici che privati, come pure fra i propri concorrenti, che, di norma, condividono le stesse esigenze, dall’altro, essa è in grado di mobilitare diverse tipologie di risorse siano esse umane, fisiche o finanziarie provenienti dalle realtà le più diverse. Inoltre, attraverso la filantropia istituzionale, è possibile minimizzare e diversificare il rischio, non appesantire la propria organizzazione con nuove infrastrutture dedicate al perseguimento degli obiettivi identificati, mantenere la massima flessibilità nella destinazione delle risorse, cosa che sarebbe impossibile se si dovesse decidere di gestire direttamente i servizi e le attività che si vuole promuovere. Infine, per permettere anche alle piccole e medie imprese di poter godere dei benefici della filantropia istituzionale è stato recentemente costituito nel nostro Paese il Comitato per il Dono[3] che permette a qualsiasi donatore di usufruire in outsourcing di tutta l’infrastruttura legale, fiscale e amministrativa necessaria per lo svolgimento di tali attività, riducendone così i costi sia finanziari che umani, ma mantenendo il controllo completo sulla destinazione delle erogazioni.
Se, per molto tempo, la filantropia istituzionale è stata esclusivamente considerata come uno strumento per migliorare la propria reputazione e gestire le relazioni, essa oggi si sta rivelando una modalità molto efficace, non solo per motivare i propri collaboratori, ma anche per perseguire quegli obiettivi aziendali aventi anche una dimensione di pubblica utilità che sarebbe troppo oneroso conseguire autonomamente, ma che sono comunque necessari per il proprio sviluppo. Riconoscere questa opportunità è quindi importante non solo per le imprese, che hanno così uno strumento in più, ma anche per l’intero Paese il quale, dopo aver inserito nella propria costituzione il principio di sussidiarietà, deve ancora dotarsi dei mezzi necessari affinché esso possa esprimere tutte le proprie potenzialità.
Articolo pubblicato nel numero di ottobre di Oxygen dedicato al decennale di Enel Cuore.
[1] Steven Peterson, Benjamin Fujii, Economic impacts of 2010 foundation grantmaking on the U.S. economy, 2012.
[2] Michael E. Porter, Mark R. Kramer. Creating Shared Value, ≪Harvard Business Review≫, gennaio-febbraio 2011.
[3] www.perildono.it
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