La nostra capacità di affrontare la crisi presente dipende da quella che potrebbe apparire un’astratta questione teorica, una sfumatura che, invece, sta condizionando e forse anche compromettendo, l’efficacia di tante politiche pubbliche e private: i problemi sociali sono essenzialmente problemi complicati o problemi complessi. In altri termini essi sono più simili alle attività necessarie per mandare un missile sulla luna, attività senz’altro difficile, ma che, una volta realizzata, può essere replicata con una buona probabilità di successo o sono analoghe alle pratiche che devono essere implementate nell’aiutare un bambino a crescere onde per cui ciò che funziona un giorno, spesso e volentieri, si rivela inadeguato il giorno dopo?
Caratteristica dei problemi complicati è quella di potersi scomporre in problemi semplici che possono essere analizzati e gestiti separatamente. Ne consegue che la soluzione di tali problemi consiste, da un lato, in una giusta analisi in grado di individuarne i singoli componenti e, dall’altro, nella capacità di risolvere le diverse parti una dopo l’altra: la somma delle varie soluzione dovrebbe, attraverso un’adeguata attività di assemblaggio, permettere di risolvere il problema complicato. Gran parte dei finanziamenti pubblici e privati sono infatti strutturati per conseguire questo obiettivo e si giustificano dalla constatazione che i problemi semplici sono tali in quanto possono essere affrontati seguendo delle procedure tutto sommato elementari e replicabili, onde per cui dovrebbe essere possibile risolvere i gravi problemi sociali con cui ci confrontiamo attraverso l’implementazione di procedure che saranno necessariamente più articolate e sofisticate, ma che saranno altrettanto replicabili.
Radicalmente diverso è l’approccio che si deve utilizzare davanti ai problemi complessi. Sebbene anch’essi dipendono da una pluralità di fattori, non è possibile gestirli in modo separato ed autonomo. Affrontare un problema complesso, significa affrontarlo contemporaneamente da 360° e il successo dipende non solo dalla correttezza dei singoli approcci, ma, in modo essenziale, da come questi si compongono fra di loro. Per fare una grande squadra non bastano giocatori tecnicamente bravi, ma è fondamentale che questi si integrino e collaborino fra di loro, altrimenti le loro capacità rischiano di trasformarsi in sterili virtuosismi incapaci di generare alcun risultato positivo. Se a ciò si aggiunge la constatazione che ogni partita è un evento unico che non potrà mai essere replicata in modo meccanico, apparirà evidente come la ricerca di una soluzione replicabile non potrà che rivelarsi un’astratta chimera.
Inoltre, se la soluzione dei problemi sociali deve essere cercata nelle persone che li vivono e non in astratte contraddizioni sociali, allora lo sviluppo di specifici servizi rischia di rivelarsi inadeguato. Ciò che è indispensabile è creare un ambiente che aiuti tali persone a trovare le risorse e la volontà per emanciparsi dal loro stato. L’obiettivo diventa quello di creare un sistema di cura che, attento alle specificità dei singoli soggetti, permetta loro, attraverso un approccio che deve essere necessariamente flessibile e in grado di adattarsi a situazioni che sono sempre uniche, di trovare gli appigli necessari ad uscire dal loro stato di difficoltà.
Ora, non occorre essere dei fini osservatori per notare come oggi la gran parte delle politiche a livello locale, nazionale ed internazionale trattino i problemi sociali come problemi complicati. Ci si concentra sulla povertà, dando vita a soluzioni sempre più sofisticate e rigorose che troppo spesso si trasformano in rigide procedure che, oltre ad alienare gli stessi operatori, si rivelano troppo spesso inefficaci nell’aiutare i singoli poveri ad emanciparsi dalla loro situazione.
Inoltre, concentrandosi sulle responsabilità dei singoli, si finisce per perdere di vista il gioco di squadra con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Questo naturalmente non significa che non sia necessario migliorare le capacità tecniche di ciascun operatore, ma che, se vogliamo effettivamente ottenere dei risultati, è necessario destinare una quantità molto maggiore di energie nel definire l’impatto che si vuole conseguire collettivamente e quindi nel coordinare gli sforzi fra tutti i soggetti interessati ad una particolare problematica, non solo con il fine di migliorare la propria efficienza, ma anche e soprattutto per conseguire, senza perdere la propria specificità e identità, gli obiettivi comuni.
Pensare di costituire una squadra formata da tanti soggetti provenienti da tutti i settori, ognuno con le proprie esigenze specifiche, che si coordinino e inizino a remare nella stessa direzione potrebbe sembrare a prima vista un’astratta utopia. In realtà ciò può succedere e sta succedendo con sempre maggiore frequenza con risultati che spesso si stanno rivelando superiori alle più rosee aspettative. La ricerca empirica, la riflessione e il dibattito sull’impatto collettivo che sta contagiando una quota sempre più strategica dei decision makers americani rappresenta una prospettiva forse feconda che dovrebbe attirare l’attenzione di tutti coloro che sentono l’esigenza di aiutare le politiche sociali ad uscire dal vicolo cieco in cui oggi sembrano confinate.
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