Non profit

La donazione: da reazione emotiva a diritto di cittadinanza

di Bernardino Casadei

Per lungo tempo la donazione è stata vista come una reazione emotiva, una rinuncia ad una quota marginale delle proprie risorse davanti ad un evento o a un bisogno che ci imponeva di fare qualcosa. Non è infatti un caso che questa tipologia di donazione è spesso collegata ad un qualche senso di colpa ed è proprio su questo senso di colpa che per lungo tempo molti fundraiser hanno fatto leva nelle loro campagne di raccolta. Attraverso l’atto di donazione il singolo risponde a singoli imperativi morali e mostra, essenzialmente a se stesso, di non essere insensibile alle disgrazie altrui. Si tratta quindi di dar vita ad un atto essenzialmente privato, per cui la sinistra non deve sapere cosa ha fatto la destra. In questa prospettiva il valore della donazione tende ad esaurirsi nell’atto di rinuncia che diventa fine a se stesso. L’impatto della donazione, anche considerato il suo importo di norma alquanto limitato, passa in secondo piano, tanto che il donatore raramente si interessa a conoscere l’uso che è stato fatto del suo contributo.

Oggi a questo approccio che, peraltro, è ancora molto diffuso, si pensi alle tante raccolte fatte per via SMS, se ne sta affiancando un altro, per il quale la donazione non è più semplicemente una rinuncia, ma una delle modalità più efficaci attraverso le quali le persone possono esercitare il proprio diritto di cittadinanza, ossia la possibilità di contribuire alla definizione e alla realizzazione del bene comune. Se, per lungo tempo, la cittadinanza si esauriva, per chi non voleva impegnarsi nell’elettorato passivo, nel votare e nel pagare le imposte, oggi sono in molti a cercare altre vie per partecipare alla vita civile. La grave crisi di legittimazione che sta contraddistinguendo l’attività politica, la corruzione con cui troppo spesso viene associata, la perdita di speranza e l’incapacità di generare visioni condivise in grado di mobilitare le coscienze e coinvolgere le energie positive presenti nella comunità, il fallimento delle grandi ideologie, la perdita di ogni poesia, ma anche lo scadimento della prosa che avrebbe dovuto sostituirla, tutto spinge chi non vuole limitarsi ad essere spettatore passivo di un degrado che finisce per negare la dignità della persona, a cercare altre vie per affermare la propria umanità.

Chiaramente per questi soggetti l’impatto delle proprie donazioni diventa fondamentale. La donazione non è più un atto fine a se stesso, ma diventa uno strumento attraverso il quale conseguire un qualche cambiamento sociale. Non si tratta più semplicemente di rinunciare ad una quota marginale del proprio reddito, ma di realizzare qualcosa in cui si crede, qualcosa in grado di dare un senso al proprio agire e per la quale si è spesso disponibili a mettere in gioco risorse molto più consistenti. Il dono diventa quindi una leva attraverso la quale non ci si limita a contribuire all’implementazione di particolari soluzioni ai problemi sociali coi quali ci si confronta, ma diventa una modalità attraverso dar vita a relazioni veramente umane perché non strumentali e soprattutto l’occasione per sperimentare quelle emozioni autentiche di cui ognuno di noi sente così fortemente il bisogno e a cui la nostra società non sembra in grado di dare risposte adeguate.

Il dono non è più un atto gratuito, ma risponde ad una specifica strategia attraverso la quale perseguire obiettivi reali e, a volte, misurabili e quantificabili. Così, sempre più spesso, le imprese non vedono più la donazione come un dovere morale o una forma di sponsorizzazione mascherata, il cui unico vantaggio viene cercato nei benefici in termini di immagine e reputazione, ma una leva con cui perseguire alcuni dei propri obiettivi strategici. Da un lato l’attività filantropica ha un evidente impatto positivo sul morale e la motivazione dei propri collaboratori, dall’altro essa può essere efficacemente utilizzata per catalizzare energie attraverso le quali promuovere quei cambiamenti sociali che sono fondamentali per il successo, anche economico, dell’impresa. Si pensi, per fare un solo esempio, ai costi che potrebbero essere risparmiati o all’aumento della produttività che potrebbe essere conseguita se la scuola fosse in grado di formare studenti con le competenze e le attitudini di cui l’impresa ha effettivamente bisogno. Per quelle imprese che non vogliono limitarsi ad attendere un intervento dello stato che rischia di arrivare alle calende greche, la filantropia può trasformarsi in una modalità per ottenere quei mutamenti dell’offerta formativa che sono nell’interesse di tutti e quindi anche nel loro.

La donazione può anche una modalità feconda per promuovere le relazioni e le amicizie. Oltre ai club di servizio che la usano per realizzare i propri service, può essere utile citare i giving circle, ossia gruppi di amici e conoscenti che si riuniscono proprio per unire risorse finanziarie e sostenere assieme progetti d’utilità sociale di cui si condivide l’importanza. Vi è poi chi utilizza la filantropia per educare i propri figli, aiutandoli a comprendere e a interiorizzare valori e principi che sono fondamentali per la loro crescita come essere umani. Ultimamente poi vi è chi sta scoprendo la forza delle filantropia per dare una risposta efficace al problema del dopo di noi. Utilizzando intermediari filantropici è infatti possibile accumulare risorse con cui garantire servizi fondamentali per garantire la qualità della vita di singole persone disabili, ma che non vengono garantiti dai contributi pubblici, massimizzando nel contempo i benefici fiscali e aumentando le garanzie contro gli imprevisti che il futuro porta spesso seco.

Per sfruttare al meglio la grande opportunità nel mobilitare e catalizzare le risorse che questo cambiamento può creare e che sono particolarmente utili in un momento di crisi come quello che stiamo vivendo, è però necessario creare un’infrastruttura sociale in grado di dare una risposta a queste esigenze. Non è più sufficiente offrire buone cause e quindi stimolare il coinvolgimento del potenziale donatore, bisogna mettersi nei panni di quest’ultimo e offrirgli i servizi di cui ha bisogno per definire e quindi realizzare i propri obiettivi, valorizzando al meglio quello di cui dispone senza imporgli vincoli ed oneri che si rivelino troppo onerosi e quindi sostanzialmente insostenibili.

In una società in cui troppo spesso ci si sente impotenti e rinchiusi in una prosaica lotta per cercare di soddisfare in modo effimero effimeri bisogni, diventa fondamentale offrire una prospettiva, uno o più obiettivi condivisibili che possano emozionare ed illuminare di senso il proprio impegno. Sono numerosi coloro che non sono più capaci di sognare, di immaginare una realtà diversa, più umana. Stimolare l’elaborazione di queste visioni è forse uno dei compiti più importanti a cui la filantropia istituzionale possa adempiere. Si tratta spesso di dare il tempo a coloro che operano in prima linea nel creare una società migliore, di fermarsi, non solo per ritemprare le proprie forze, ma anche e soprattutto per riscoprire le motivazioni e i valori che li hanno spinti ad impegnarsi nella buona battaglia e quindi condividere tali visioni con un pubblico più ampio.

La seconda sfida consiste nel mostrare che queste visioni non sono astrazioni velleitarie, ma concrete opportunità che, se condivise da un numero sufficientemente ampio di persone, possono realizzarsi, anche nella propria comunità. Non si tratta di chiedere sforzi eroici, ma piuttosto di mostrare come singoli contributi limitati, quando si muovono in modo coordinato nella stessa direzione, possono ottenere cambiamenti altrimenti inimmaginabili. In altre parole, compito della filantropia istituzionale non è tanto quello di sostenere specifici progetti, i quali hanno necessariamente un impatto limitato, ma di svolgere una funzione di catalizzatore capace di attirare e di combinare per il bene comune, le tante energie che, nell’isolamento che contraddistingue la nostra società, giacciono inutilizzate e vengono sprecate quando non si trasformano in comportamenti antisociali.

Infine, ed è forse questa la sfida più difficile, si tratta di contribuire a costruire un ambiente che ci protegga dalla frenesia di una società che ci impedisce di trovare il tempo per riconoscere, nel silenzio delle proprie passioni, ciò che è veramente importante. Pochi sono infatti coloro che non denunciano il carattere disumano di una società che ha trasformato il potere e il denaro da mezzi a fini e che nel contempo ha degradato la persona umana e mero strumento, privandola della sua dignità. Ancora meno sono coloro che non riconoscono come spesso i veri momenti di gioia e le emozioni più profonde sono collegati ad atti di amore e generosità e non vi è donatore che non racconti come di norma egli riceva molto di più di quello che dà. Non occorre essere dei fini analisti per capire come una società fondata sul dono e l’aiuto reciproco è molto più resiliente e in grado di superare le difficoltà, garantendo una migliore qualità della vita, della migliore delle combinazioni lib-lab. Eppure ognuno di noi dona di norma molto di meno di quello che potrebbe e ciò spesso perché la frenesia e le scadenze, spesso inutili, che dominano la nostra vita, ci impediscono di fermarci, prendere coscienza di queste verità e agire di conseguenza. Si tratta infatti di decisioni che potremmo sempre prendere il giorno dopo, ma proprio per questo si trasformano in scelte che finiamo per posticipare all’infinito. Ne consegue che una delle sfide più importanti della filantropia è proprio quella di creare occasioni e scadenze da inserire nelle nostre agende affinché riusciamo a trovare il tempo per vivere ciò che abbiamo riconosciuto come veramente importante.

Perché tutto ciò possa concretizzarsi la filantropia istituzionale deve fare un bagno di umiltà. Il suo compito non è quello di elaborare le soluzioni, ma piuttosto quello di mettersi al servizio di tutti coloro che vogliono, nei limiti delle loro possibilità, contribuire al bene comune. Essa deve fuggire la tentazione di trasformarsi in una sorta di filantrocrazia che, grazie alle risorse di cui dispone, si illude di poter imporre la propria volontà, ma piuttosto cercare di svolgere un ruolo di facilitatore che aiuta tutti coloro che operano in una determinata comunità a definire e condividere la propria visione, a coordinare energie provenienti dalla fonti più diverse, a trovare il tempo per definire le proprie priorità. Per conseguire tale compito diventa fondamentale offrire garanzie, affinché ognuno abbia la certezza che le proprie volontà saranno rispettate; flessibilità, così che ciascuno possa perseguire ciò che meglio risponde alla propria sensibilità, semplicità, in modo tale che l’esperienza filantropica sia fonte di gioia e non causa di problemi; economicità ed efficacia, perché, una volta stabilito l’obiettivo, ogni spreco sia bandito.

L’intermediazione filantropica è strutturata per conseguire questi obiettivi. La sua peculiare struttura legale, fiscale e gestionale è infatti pensata per garantire ai donatori tali benefici, ma l’esperienza di questi anni ha dimostrato come senza un lavoro volto a stimolare la visione comune, a proporre percorsi concreti, ad aiutare ciascuno a sviluppare la consapevolezza delle proprie potenzialità e del valore del contributo che può offrire per il bene comune, tutte queste potenzialità rischiano di giacere inutilizzate. Le fondazioni di comunità italiane sono infatti ben strutturate, hanno procedure rigorose, costi di gestione estremamente ridotti, la possibilità di assistere i donatori nel perseguimento delle loro finalità filantropiche. Tutto ciò però non basta. L’aspetto meccanico, per quanto fondamentale, non è sufficiente. Occorre innestare la visione, suscitare la motivazione e testimoniare in prima persona le potenzialità dello strumento affinché esso si diffonda e contribuisca a creare quella società solidale e sussidiaria che tutti invocano, ma che ancora stenta a decollare.

Pubblicato in “Quaderni di Economia sociale” Num. 2, ottobre 2014, pp. 27-30

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