Le fondazioni di comunità sono enti privati che perseguono la promozione del dono democratizzando la filantropia attraverso l’intermediazione filantropica. Naturalmente questa non è che una delle possibili definizioni di quello che, a livello mondiale, è il settore in più rapida crescita delle filantropia istituzionale, ma credo che, almeno nel contesto italiano, sia la più feconda e ricca di prospettive.
Il dono viene perseguito come fine e non solo come mezzo per mobilitare risorse economiche necessarie per dare una risposta a crescenti bisogni sociali che né la pubblica amministrazione, né gli automatismi del libero mercato, né una loro combinazione sembrano in grado di soddisfare in modo adeguato. Il riconoscere nel dono una dimensione capace di trascendere ogni strumentalità può infatti rivelarsi una delle vie più efficaci per aiutare i singoli a riscoprire la propria umanità, permettere alle organizzazioni di privato sociale di riaffermare un proprio ruolo che vada al di là dell’erogazione di beni e servizi a costi competitivi, ricostruire delle comunità fondate sulla solidarietà e sussidiarietà, unica reale alternativa ad uno stato sociale i cui limiti sono ormai sotto gli occhi di tutti.
Riconoscere il valore del dono come fine significa promuovere una ben specifica opzione antropologica che ben si radica nella tradizione di un popolo che, indipendentemente dalla fede personale, non può non dirsi cristiana. Essa infatti rifiuta la riduzione della persona ad una monade il cui unico fine è quello di perseguire le proprie utilità marginali in una, come direbbe Nietzsche, “continua lotta per soddisfare in modo effimero, effimeri bisogni”, per riscoprirne la dimensione relazionale. Riconosce come esistono dei bisogni fondamentali della persona: il bisogno di senso, di emozioni autentiche, di relazioni vere in quanto non strumentali, che proprio il dono può soddisfare. Supera un’interpretazione del dono come rinuncia e dovere morale per presentarlo come un’opportunità per umanizzare la propria esistenza e vivere concretamente quella felicità che la modernità non è riuscita a garantire e che cerca di surrogare con un divertimento che troppo spesso ci lascia con l’amaro in bocca.
Promuovere il dono come fine significa anche ripensare il ruolo del privato sociale. Non si tratta più di surrogare ai fallimenti dello stato e del mercato, ma di svolgere un ruolo che né l’uno né l’altro sono strutturalmente in grado di svolgere: rigenerare quel capitale sociale fondato sulla fiducia reciproca che il pensiero strumentale dominante inevitabilmente erode con le conseguenze negative, anche per la solidità delle istituzioni democratiche e il corretto funzionamento del libero mercato che sono sotto gli occhi di tutti. Aiutare le organizzazioni senza fine di lucro a non pensarsi più come erogatori di servizi per conto terzi, in cui i terzi sono spesso delle pubbliche amministrazioni non di rado inadempienti, ma come concrete opportunità che i singoli possono utilizzare per vivere concretamente quelle emozioni che solo l’esperienza del dono può garantire, può rivelarsi una strada in grado non solo di mobilitare risorse necessarie alla propria sostenibilità, ma anche di sviluppare quell’identità di cui un settore che si definisce terzo, quando non usa termini negativi (non profit, non governativo), ha chiaramente bisogno.
La riscoperta del dono come fine può dunque svolgere un importante ruolo nel processo di miglioramento della qualità della vita della propria comunità. Il rapporto dono – fiducia – capitale sociale – sviluppo è evidente e corroborato da una crescente mole di esperienze empiriche. Da un punto di vista economico la globalizzazione sta paradossalmente portando a riscoprire l’importanza della comunità locale, che sola può offrire l’humus senza il quale è spesso impossibile vincere le sfide della competizione mondiale. Nel contempo, l’ultima grave crisi economica ha permesso alle imprese di riscoprire l’importanza del valore condiviso per cui la filantropia non è più una mera rinuncia o una semplice opportunità per migliorare la propria immagine e reputazione, ma diventa una leva da inserire nella propria strategia aziendale per conseguire quella sostenibilità di lungo periodo che la massimizzazione del profitto nel breve rischia di minare le fondamenta dell’impresa stessa, fino a farla fallire.
Infine il dono può svolgere un ruolo importante nel coinvolgere i cittadini nel contribuire alla definizione e realizzazione del bene comune. In una situazione in cui le istituzioni democratiche stanno evidentemente soffrendo una perdita di legittimazione, diventa indispensabile individuare nuove modalità attraverso le quali i singoli cittadini possano effettivamente esercitare il loro ruolo. Il dono, permettendo di contribuire al perseguimento di un obiettivo di utilità sociale, contribuisce a ricostruire quella relazione con il bene comune che è fondamento indispensabile ad ogni democrazia. La realizzazione di concreti cambiamenti sociali diventa poi fondamentale per superare quel senso di impotenza, oggi molto diffuso, che finisce inevitabilmente per spingerci a chiuderci nel nostro particulare, con le conseguenze negative, anche in termini di corruzione, che tutti possiamo constatare.
Dopo che per lungo tempo il dono era stato rilegato nella sfera intima e privatistica dell’individuo quando non se ne era addirittura negata l’esistenza, la riscoperta del valore sociale del dono rende particolarmente attuali delle istituzioni che facciano della sua promozione il fulcro della propria missione. Il dono, come ogni bene relazionale, è infatti fragile ed ha bisogno di continue cure, soprattutto in una società la cui frenesia ci impedisce di cogliere i nostri bisogni più profondi che sono proprio quelli che il dono può soddisfare. Creare un ambiente favorevole al suo sviluppo diventa quindi una missione fondamentale per lo sviluppo della nostra civiltà e per ciò stesso una delle opportunità più nobili ed esaltanti in nome della quale impegnare le proprie energie.
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