Non profit

Filantropia e Sviluppo

di Bernardino Casadei

Siamo una società ricca che non trova i mezzi per soddisfare un crescente numero di bisogni fondamentali e ciò malgrado siano enormi le risorse finanziarie, tecnologiche e soprattutto umane (si pensi alla disoccupazione ed in particolare a quella giovanile) che giacciono inutilizzate, vengono sprecate e si trasformano in una fonte di nuovi e sempre più gravi problemi sociali. Questa semplice constatazione mostra chiaramente come gli automatismi del libero mercato e l’intervento delle pubbliche amministrazioni si stiano rivelando insufficienti e non riescano più a garantire una razionale ed efficace allocazione delle risorse. Davanti al sostanziale fallimento delle politiche fin qui proposte è opportuno chiedersi se la strada per far ripartire l’economia non debba essere cercata proprio nel superamento di queste contraddizioni.

Un’analisi dei bisogni insoddisfatti mostrerà come questi siano per lo più bisogni sociali, ossia bisogni che possono rispondere contemporaneamente a una pluralità di esigenze diverse. Un servizio di assistenza pomeridiano per bambini non è solo fondamentale per questi ultimi e le loro famiglie; esso rappresenta un investimento ineludibile per ogni amministrazione che voglia prevenire gravi problemi sociali. Si tratta poi di un’attività che può facilmente inserirsi in un programma di welfare aziendale, trasformarsi in un ottimo investimento filantropico, coinvolgere donatori e volontari in esperienze gratificanti ed emozionalmente intense. Purtroppo è raro che uno di questi soggetti possa da solo farsi interamente carico di tutti i fattori produttivi o perché il beneficio atteso non giustifica l’investimento, o perché non si hanno a disposizione risorse sufficienti. I bisogni rimangono insoddisfatti e risorse importanti rischiano di essere sprecate; l’economia non cresce e la società peggiora.

Per superare questa impasse sono necessarie imprese capaci di catalizzare risorse da tutti i soggetti potenzialmente interessati. Riprendendo l’esempio precedente, non è improbabile che, riunendo in un’unica iniziativa le rette dei genitori, i contributi delle pubbliche amministrazioni, gli investimenti di welfare aziendale, le erogazioni degli enti filantropici e le donazioni private si possa conseguire una sostenibilità in grado di innescare un processo che permetta di uscire da un circolo vizioso caratterizzato da bisogni insoddisfatti e risorse inutilizzate.

Le realtà che sono meglio posizionate per svolgere tale ruolo sono le organizzazioni che perseguono finalità d’utilità sociale. Esse, oltre ad avere competenze specifiche frutto di una lunga esperienza nei settori dove più numerosi sono questi bisogni (assistenza, sanità, educazione, cultura, tutela dell’ambiente e del patrimonio storico ed artistico), sono le sole ad essere potenzialmente in grado di mobilitare donazioni, volontariato e contributi filantropici. Si tratta certo di risorse marginali rispetto alle masse gestite dalla finanza, ma che possono rivelarsi determinanti per garantire quella sostenibilità che è condizione perché la finanza possa mobilitarsi.

Non sempre però le organizzazioni non profit sanno valorizzare tale loro peculiarità. Benché ciò possa sembrare paradossale, il dono non è mai gratuito. Il dono è sempre uno scambio, diverso da quello di mercato, ma non meno scambio. I donatori non donano alla cieca, in nome di astratti sacrifici. Essi non donano perché ci sono dei problemi, ma perché le organizzazioni presentano loro delle soluzioni in grado di generare il cambiamento sociale desiderato, sviluppare relazioni veramente umane perché non strumentali, generare emozioni autentiche. Non basta chiedere e bisogna evitare di oscillare tra l’accattonaggio e il marketing più spregiudicato. Occorre dotarsi di una struttura in grado di contraccambiare, garantendo ai propri donatori quelle emozioni, quelle relazioni e quel cambiamento sociale che essi si attendono. Si tratta di tesori di cui le organizzazioni del privato sociale sono particolarmente ricche, ma che troppo spesso custodiscono gelosamente al loro interno, senza pensare a come condividerli con il resto della comunità.

La promozione del dono, per essere veramente efficace, deve penetrare nel DNA dell’ente. Essa deve trasformarsi in un elemento identitario, perché lo scambio che contraddistingue il dono, diversamente da quello commerciale, coinvolge nella sua totalità chi lo vive: donare significa donarsi. Si innesca così un ciclo che, ripetendosi nel tempo, contribuisce a ricreare quel capitale sociale e di fiducia la cui erosione è considerata da molti analisti la vera causa della crisi economica e delle istituzioni democratiche che stiamo vivendo. Inoltre, il dono può trasformarsi nel fondamento identitario di un settore che ne ha un grande bisogno, dato che si definisce con termini negativi (non governativo, non profit) e che, in mancanza di meglio, si definisce terzo, che tanto rimanda al “terzo mondo” con cui venivano chiamati i paesi più poveri. Infine, se il dono è uno scambio, e se le emozioni, le relazioni, il cambiamento che l’organizzazione mette a disposizione dei propri donatori dipendono in gran parte dai propri assistiti, questi ultimi cessano di essere dei meri oggetti della beneficenza altrui per trasformarsi in soggetti generatori di valore; di un valore peraltro inestimabile, perché può soddisfare le esigenza più vere e profonde dell’umana dignità.

Queste brevi riflessioni fanno emergere quanto questa prospettiva possa essere feconda ed esaltante per un settore che ancora non ha espresso tutte le sue potenzialità, ma anche quanto profondo ed impegnativo sia il processo di trasformazione che gli enti non profit devono affrontare per poterne cogliere i benefici. Si tratta di trovare le energie necessarie per riaffermare la propria identità, ritornare alle origini e riscoprire come il vero fondamento di un’organizzazione non deve essere cercato nei pur importanti servizi che eroga, ma nei valori che questi testimoniano. Bisogna riaffermare con forza che il privato sociale non è nato né per rimediare ai fallimenti del mercato, né a quelli dello Stato; esso non è sorto per erogare a costi contenuti servizi per conto delle pubbliche amministrazioni o per tamponare le falle più evidenti di un mondo privo di poesia, ma per proclamare quegli ideali di giustizia che sono il fondamento dell’umana dignità.

Per approfondire tale prospettiva, capire cosa ciò possa concretamente significare e condividere un manifesto che possa guidare la propria strategia nei prossimi anni, la Fondazione Comasca con il sostegno della Fondazione Cariplo e in collaborazione con il Center on Philanthropy and Civil Society del Graduate Center della City University di New York ha chiesto l’aiuto di una quarantina di esperti internazionali provenienti da tutti i continenti. Questi si confronteranno con le possibili strategie che sono state raccolte coinvolgendo numerose organizzazioni non profit e cercheranno di analizzare le potenzialità, ma anche i limiti e le criticità di questo approccio. Il frutto di queste riflessioni sarà quindi condiviso in un convegno pubblico che si terrà sabato 15 ottobre a Como presso l’Università dell’Insubria.

In una società che sembra senza prospettive ed immaginazione, in cui spesso ci si sente impotenti, come sepolti in un clima di grigia decadenza, è questa un’opportunità per guardare il futuro con occhi diversi, condividere una visione piena di speranza, dotarsi di concreti strumenti con cui implementarla in una quotidianità in cui ciascuno possa sentirsi e realmente essere protagonista nella costruzione del bene comune.

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