Mohamed Ba e le (ex) panchine di Terno d’Isola

di Giulio Cederna

Le capre stiano in campana: non c’è pace sopra e sotto le panche italiane. Qualche settimana fa il sindaco di Terno d’Isola, un borgo di settemila anime in provincia di Bergamo, ha fatto rimuovere due panchine davanti a un kebab. A quanto dice erano un luogo di ritrovo di immigrati, (e quindi) un orinatoio, (e quindi) un’offesa al pubblico decoro, nonché un serio intralcio alla libera circolazione delle carrozzine padane. La decisione ha richiamato alla memoria le tristi sparate dello “sceriffo” di Treviso. I neri si siedono sulle panchine dei giardinetti della stazione? Allora togliamole di mezzo, almeno qui ladri non ci poggeranno più il culo, dixit e mise in pratica anni fa.

Un giorno dovremo chiederci come tutto ciò sia stato possibile nell’Italia del Duemila. Certo a Terno d’Isola la presenza di immigrati è cresciuta notevolmente negli ultimi anni e si va facendo stabile: uno “straniero” su cinque è nato in Italia e diventerà presto ternese. Certo la convivenza pone i suoi problemi, richiede pazienza, capacità di ascolto, dialogo e mediazione, risposte complesse, soprattutto in tempi di crisi. Certo le scorciatoie sono sempre a portata di mano: da che mondo e mondo costruire l’immagine del nemico interno aiuta a guadagnare consensi. Ma se un sindaco arriva al punto di spianare a cuor leggero una panchina, il simbolo stesso di quella pace sociale che dice di voler salvaguardare, la sensazione è che il vero problema sia un altro. Un sondaggio sul nuovo lessico degli italiani diffuso da Demos qualche tempo fa sostiene che la parola “pubblico” non è ancora impopolare come “stato”, ma è comunque out, retrò, una parola del passato. “Bene comune” va meglio, ma a guardare lo stato di salute dei nostri giardini, l’impressione è che sia una moda transitoria, l’onda lunga dei referendum dello scorso anno. Una panchina è di tutti e quindi di nessuno, posso farne volentieri a meno. Una panchina è una panchina che problema c’è ad abbatterla, per giunta se collocata davanti a kebab? gracchiano gli agitatori di Radio Padania. E invece no! Se oltre che il culo, ci mettessimo anche un po’ di cervello scopriremmo che una panchina è innanzitutto un luogo straordinario di osservazione e di incontro. All’occorrenza può diventare un’amorevole compagna di viaggio, come recita il mio amico Mohamed Ba – poeta, attore, mediatore culturale, barbaramente accoltellato tre anni fa nel centro di Milano – nello spettacolo Incazzato Bianco: “Per fortuna trovai una casa, un rifugio, un’amica e confidente, una compagna solitaria nella solitudine delle città: la panchina in piazza. Là dove oramai ogni casa è una tomba ed ogni uomo una bara, la panchina era rimasta uguale a se stessa, imperturbabile, accogliente e resiliente. Con quella panchina ho passato delle notti stellate a meditare su di me, il mondo, il lavoro e le virtù. Io e la panchina eravamo legati da un’unione morganatica. Non mi ha mai chiesto chi fossi, né quanti soldi avessi ne se avessi documenti o meno. Era sempre lì ad aspettarmi per un abbraccio lungo notti intere. Devo dire che in quella panchina ho trovato più umanità che negli uomini. Alla fine io con la panchina eravamo divenuti una cosa sola; niente più incomprensioni, niente più diniego, niente più assuefazione”. Ma questo accadeva qualche anno fa, prima che l’ex Sindaco di Milano decretasse che chi dorme sulle panchine attenta al decoro della città. Da allora, come in tante altre città del Nord, le panchine hanno un divisorio di ferro al centro e sono diventate democraticamente scomodissime. Rob de matt.

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