Ieri ero in uno studio medico ed ho fotografato mentalmente una scena che mi ha fatto riflettere. Un diciottenne volontario della Misericordia accompagnava un anziano infermo a fare delle analisi. Al volante c’era un uomo di mezza età e mi ha colpito la naturalezza che poneva il diciottenne nell’estrarre e aprire la pesante sedia a rotelle che avrebbe accompagnato l’anziano. Esiste una grande fetta della popolazione italiana che nemmeno riuscirebbe ad estrarla quella sedia.
In molti non se ne sono accorti, e come biasimarli visti i tempi che corrono, ma il 2012 sarebbe l’Anno che l’Unione europea ha voluto dedicare agli anziani, battezzandolo “Anno europeo per l’invecchiamento attivo e la solidarietà fra le generazioni”.
In una società normale gli anziani sono importanti: sono la memoria, l’esperienza, hanno dato molto per costruire il presente e possono dare ancora molto. Nelle società moderne gli anziani sono visti prima di tutto come un costo. E un costo in effetti lo sono. Anche in Italia dove sono sempre di più, essendo cresciuti fra il 2001 e il 2011, secondo i dati dell’Istat, del 35,5% il numero degli over 85, a fronte di tassi di crescita molto inferiori delle fasce di popolazione più giovane.
Nemmeno la presenza degli stranieri residenti -di loro solo il 2% è over 65- riequilibria le cose. Gli effetti sull’economia -e sulla spesa pubblica- di una situazione del genere sono assai noti: l’Italia ha oggi una spesa pensionistica molto superiore alla media europea (il 16,1% del Pil a fronte dell’11,7% dell’Europa a 15) e le cosiddette prestazioni monetarie per l’invalidità civile vanno in gran parte a beneficio di anziani non autosufficienti.
Siamo condannati allora a doverci accollare senza appello il peso dei nostri nonni o genitori? Intanto una cosa importante le generazioni passate l’hanno fatta: hanno comprato o costruito abitazioni ed oggi forse il più potente fattore di protezione sociale degli italiani è proprio il fatto che l’80% di essi vivano in case di proprietà, con le dovute eccezioni che ovviamente esistono e sono fonte di forte disagio. Spesso i nostri anziani hanno costruito case anche ai figli ed è un’eredità importante se si considera che circa la metà della ricchezza italiana è rappresentata da abitazioni.
Viviamo in un paese bloccato. Qualche mese fa, in un’intervista, l’economista Luigino Bruni mi ha detto. “Un Paese bloccato è un segnale di decadenza di un popolo. Un esempio: diamo per scontato che una persona che supera i 75 anni di età debba usufruire i servizi gratuiti. È una cosa molto bella, ma è il retaggio di un mondo passato dove chi era anziano non aveva niente e la ricchezza era basata sui giovani. Oggi in Italia c’è la tendenza opposta, c’è un grande spostamento di ricchezza verso le pensioni, che sono quelle più difese perché una classe politica che invecchia ha interesse ai voti degli anziani. Nonostante questo si consuma, paradossalmente, un’ingiustizia verso gli attuali anziani, che hanno offerto cura agli attuali genitori e oggi non possono in molti casi ricevere alcuna cura, oltre ad essere messi in casa di riposo. Non si tratta di mettere anziani contro giovani, sarebbe un mondo senza futuro, ma occorre capire che un mondo senza giovani che lavorano è insostenibile anche per gli anziani“.
Sembra una maledizione, ma deve trovare una via d’uscita, anche perchè gli anziani e attuali pensionati hanno lavorato una vita e ora vivono semplicemente godendo dei propri diritti. Allora disinnescare la mina di conflitti generazionali è anche una battaglia culturale importante, perché l’Italia vive di divisioni, sono la cifra della sua situazione attuale e forse una delle più importanti chiavi di lettura della propria storia. E dividere anziani e giovani è come scegliere di rinunciare alla metà di un organo vitale.
Qui si inserisce il ruolo del terzo settore e nello specifico del volontariato: gli anziani che rendono un servizio utile alla collettività sono tanti, ma la maggioranza, sempre che abbiano ancora le forze per farlo, sono costretti oggi a dedicarsi alla famiglia, soprattutto ai nipoti piccoli, i figli cioé della generazione meno fortunata dell’Italia dal dopoguerra ad oggi in termini di possibilità, spesso costretta a lavori precari e ad orari assurdi. E’ difficile fare generalizzazioni, ma forse è corretto dire che esiste anche questo effetto della crisi (in questo caso intesa come condizione lavorativa delle persone sotto i 40 anni), rappresentato dalle energie che essa fa versare ai nostri anziani. La maggioranza dei quali, è bene ricordarlo, percepisce pensioni sotto i mille euro.
Meno male che c’è il nonno o la nonna (o entrambi). Ma c’è una sfumatura un po’ triste in tutto questo: il relegare le solidarietà fra le generazioni ad un affare privato, solo familiare. La solidarietà declinata solo al sangue del proprio sangue o agli affetti più cari. E allora pensavo se dall’Anno della solidarietà fra le generazioni non potesse venire fuori qualche esperienza diversa. Se qualche associazione, consapevole dell’importanza di questa battaglia culturale, non potesse attivare progetti volti proprio a rendere la solidarietà fra le generazioni un fatto pubblico, a socializzare il bisogno di cura e assistenza di piccoli e anziani, a renderlo un terreno di scambio, apertura e conoscenza oltre le barriere domestiche e la monetarizzazione dei bisogni in cui spesso è relegato.
A fare in modo che lo “spread” di solidarietà fra famiglie e territori si riduca e che, magari su piccola scala, si sperimentino idee e pratiche innovative. Farebbe bene a tutte le generazioni, alle persone, all’Italia. E non costa nulla. Avete qualcosa da segnalare?
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