Volontariato

A che ci serve l’Università del volontariato

di Giulio Sensi

Quando la si nomina fuori dagli ambiti strettamente accademici spaventa un po’. Quando la si associa a parole come volontariato spaventa più di un po’. Se poi il professor Stefano Zamagni, (non me ne voglia professore e perdoni un perfetto sconosciuto, suo estimatore, che commenta le sue parole lette poi su un comunicato stampa!) la spiega così, dà adito a pensieri strani.

Ecco le parole di Stefano Zamagni alla presentazione dell’Università del Volontariato lanciata dal Ciessevi di Milano.

Non si può pensare che un’associazione di volontariato sia basata soltanto su uno spontaneismo di tipo emozionale. Ecco perché ai volontari bisogna fare lezione. Non può essere sufficiente che una persona dica “io ho la vocazione di fare e lo faccio”. Questa è una strada di corto respiro. Se si vuol fare davvero volontariato occorre mettersi a studiare. Cosa vuol dire studiare? Non vuol certo dire studiare per superare l’esame, ma significa acculturarsi“.

Qualche lecita domanda. Dove sta scritto e dimostrato che le associazioni si basano solo su spontaneismo di tipo emozionale? Chi può  dire che “ai volontari bisogna fare lezione“? Chi l’ha detto poi che studiare significa ascoltare gli accademici o leggere i loro studi (spesso utili a pochi o proprio inutili) sul terzo settore? Quanta cultura si impara facendo servizio, stando sulla strada, aprendo il cuore alle relazioni con i compagni di associazione o con chi necessita della nostra cura. Che parola superata, almeno per i giovani, poi che è “acculturarsi”!

Ma fermarsi alle parole di Zamagni sarebbe riduttivo per commentare –come alcuni amici mi hanno invitato a fare– la nascita della prima Università del Volontariato in Italia (che forse sarebbe più corretto chiamare Università del Terzo settore, ma ne esiste già una a Pisa).

Depurata da approcci troppo “top-down”, l’idea è interessante anche perché, come commenta il presidente del Ciessevi di Milano Lino Lacagnina, nasce da esigenze realmente verificate all’interno delle associazioni. Molto vera anche la considerazione del comico/volontario/formatore Enrico Bertolino che spiega come “dalla mia esperienza posso affermare che creare un’associazione è semplice, il difficile è farla vivere. E per fare questo sono necessarie competenze e formazione“.

A patto, penso, che tali competenze non si fermino solo sulla carta e nelle teste, ma che invece riguardino anche un approccio diverso al volontariato: gli aspetti umani, relazionali, la creazione di percorsi partecipativi e condivisi, strumenti veri di accoglienza e integrazione di nuovi volontari, nuove forme di partecipazione alle decisioni delle amministrazioni pubbliche, linguaggi diversi, inedite visioni, nuove e più incisive forme di comunicazione che non snaturino il volontariato, ma lo rendano più attraente per chi vuole sporcarsi le mani per cambiare o migliorare la società.

Allora ecco -lo dico da possibile studente- che i tre “corsi obbligatori” (Motivare i volontari e motivare se stessi come volontari, Comprendere l’organizzazione e la gestione di un’associazione, Comunicare e gestire le relazioni nell’esperienza di volontariato) possono essere utili.

A condizione che chi li frequenta non sia un asteroide precipitano da fuori nelle organizzazioni di volontariato, ma che faccia già parte di processi associativi positivi. Fate in modo che le teste crescano insieme ad altre teste e sappiano agire insieme. Anche il volontariato ne ha bisogno.

 

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