“Da che punto guardi il welfare tutto dipendeeeee….”. Viene in mente l’allegra canzone di Jarabe de Palo quando si osserva il welfare italiano. Prendiamo quello che, utilmente, il prof. Cristiano Gori dell’Università Cattolica di Milano definisce “sociale”: l’insieme di interventi pubblici dedicati alle persone con ridotta autonomia (anziani, disabili, bambini piccoli) o in condizione di povertà; i servizi sociali e socio-educativi di titolarità dei Comuni, dei servizi socio-sanitari di titolarità delle Asl e di alcune prestazioni monetarie (invalidità civile e la povertà) di responsabilità statale.
Insomma, la spesa sociale. In Italia è tanta o poca? Difficile dirlo. Si può dire invece con certezza che è molto più bassa della media europea e che è schiacciata sui trasferimenti monetari –soldi, money– che arrivano sui territori in maniera scoordinata. Ci sono i flussi dell’Inps, un gigante indisturbato del welfare italiano, le indennità di accompagnamento, le pensioni di invalidità; poi ci sono i servizi dei Comuni, e ancora quelli socio-sanitari delle Asl. Una babele di risorse che tengono in vita un sistema che andrebbe riformato alla radice, dunque rivoluzionato. In termini di sprechi, di iniquità, di competenze, come ricorda Chiara Saraceno.
E il terzo settore dovrebbe abbandonare la difesa “per categorie” che lo caratterizza: inutile difendere gli anziani se le politiche per i giovani e le famiglie con bambini piccoli sono a trascurate. Inutile rivendicare solo sostegno alla famiglia se la vulnerabilità attacca soprattutto le famiglie che si disgregano. È come mettere un antifurto potentissimo alle porte e poi dimenticarsi le finestre aperte al piano terra. Non funziona.
L’Irs -Istituto di Ricerca Sociale- di Milano ogni anno presenta delle proposte e delle analisi interessanti, quanto poco comunicate, durante convegni sul welfare. Snocciolano i dati e propongono soluzioni per riorientare la spesa: i ministri o sottosegretari di turno ascoltano, i fissati del welfare si segnano dati su dati sui loro quaderni.
Dunque un mesetto fa l’Irs ha fatto emergere in un convegno che la spesa sociale ammonta a 67 miliardi di euro, il 4,3% del Pil. È iniqua, a detta loro, perché al 40% della popolazione più ricca va un quarto delle risorse disponibili e le famiglie giovani ricevono solo l’11% delle risorse. Tanto o poco? Come si fa a dirlo? Dipende dalle famiglie, da che tipo di sostegni e da tanti altri fattori.
Forse dovremmo capire e far capire una volta per tutte che la contrapposizione generazionale nella spesa sociale è un’operazione molto rischiosa che necessita di approfondimento per evitare di ingenerare disinformazione e luoghi comuni. Anche perché la crisi non chiede la carta d’identità a nessuno, arriva come la primavera di Fabrizio de André, sicura e senza bussare come fumo penetra in ogni fessura. Figuriamoci se non entra dalle finestre spalancate.
Altrettanto sicuramente la spesa sociale è schiacciata sulla popolazione più anziana, ma pure questa caratteristica ha dei motivi storici e demografici. Condividiamo che sia un tema da cominciare a tagliare con l’accetta.
Comunque tutti sono d’accordo che occorrerebbero più soldi, ma tanto non ci sono ed è inutile aspettarli perché non arriveranno.
Allora bisognerebbe iniziare ad usare meglio quelli che ci sono, perché 67 miliardi di euro saranno pochi, per carità, rispetto ai bengodi scandinavi, ma sono pur sempre molta roba. Convince quello che sostiene Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan, e in generale la ricerca della sua Fondazione: le risorse non sono molte, ma sarebbero abbastanza se venissero messe a sostegno di modelli efficaci di assistenza. Insomma, se fossero usate meglio.
E se fossero anche, magari, armonizzate con le risorse “private” delle famiglie.
Cambiare in sostanza, il paradigma imperante che è un’immagine del welfare italiano: una casa d’inverno, riscaldata in più punti, con risorse diverse, più o meno consistenti, che in altrettanti punti dell’edificio rimane con porte e finestre aperte le quali finiscono per far disperdere il calore. Basterebbe il calore immesso nell’edificio per far vivere confortevolmente chi vi sta dentro se fosse ben isolato? È difficile dirlo, ma sicuramente ci sarebbe meno freddo.
Una cosa è certa: non se ne può più di modelli di assistenza a senso unico che disincentivano la capacità delle persone di reagire. Scusate se banalizziamo, ma pagare le bollette o fare la spesa per un periodo alle persone non risolve un bel niente se insieme non si creano percorsi di responsabilizzazione ed emancipazione. E se il lavoro non c’è bisognerà pur inventare qualcosa.
E a farlo non possono essere gli enti erogatori, né tantomeno i servizi sociali dei Comuni sempre più cristallizzati e resistenti al cambiamento.
Soluzioni in tasca non le ha nessuno, ma sarebbe interessante se i dibattiti a tema, come per esempio è successo a Bertinoro un paio di settimane fa, fossero più coraggiosi e provocatori. Ci proveremo giovedì -31 ottobre- alle 16 a Roma al Salone dell’Editoria sociale all’incontro “Tra il dire e il welfare” che riproporrà una discussione a partire dal libro pubblicato un anno fa da Altreconomia il quale già si poneva questi e altri interrogativi.
Dovremmo iniziare anche a dire che non è possibile basare il welfare del futuro solo su quante risorse lo Stato riuscirà a far arrivare a chi ha bisogno di assistenza. Perché se non facciamo in modo che le persone diano il meglio di loro si rischia di favorire modelli “energivori” e inefficaci. Proprio come la casa riscaldata con le finestre aperte.
Un esempio? Le persone che vivono di assistenza e poi si giocano i pochi spiccioli alle slot machine. Se non di sola moneta vive il welfare c’è bisogno veramente di una rivoluzione.
Speriamo che qualcuno se ne accorga. Ma intanto accorgiamocene noi.
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