Lucca è una città di provincia, ma è bella, bellissima. Grazie agli antichi e nonostante i contemporanei. La visitano da tutto il mondo e ce la invidiano in ogni angolo del Pianeta. La mia città è in crisi, le aziende chiudono, i giovani non sanno dove trovare un lavoro, il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 40%, la gente in cassa integrazione non si conta più. A crescere sono solo fast food, compro oro e sale slot. I giovani, se possono, se ne vanno. E fanno bene.
In tutta la provincia di cui la mia città è comune capoluogo ci sono 51.000 case invendute e 11.000 sfitte. Nella mia provincia c’è una casa vuota ogni 6 abitanti, bambini compresi. Ci sono 160.000 annunci immobiliari ogni 1000 abitanti. I patrimoni accumulati sono fermi ad imbrunire, l’economia è quasi ferma, l’innovazione e la creatività sono merce rara. Nella mia città i negozi chiudono perché non ce la fanno, tante case rimangono fredde e vuote d’inverno e le strutture assistenziali non riescono più ad accogliere persone rimaste senza dimora. L’impoverimento è crescente, ma non di tutti. Le diseguaglianze aumentano.
Nella mia città le proprietà private sono piccoli paradisi tenuti come salotti, l’erba nei giardini delle case viene tagliata con le forbicine, ma pochissime persone si prendono cura degli spazi pubblici. Nella mia città molti sono arrabbiati a causa della crisi, si sentono minacciati. Tutti si lamentano. Ce l’hanno con gli immigrati, con gli amministratori, coi politici, con i vicini di casa. Nella mia città in ogni strada c’è un contenzioso legale fra vicini di strada: ormai non si parlano che tramite i loro strapagati avvocati.
Nella mia città, come nel resto d’Italia, la maggior parte delle persone è convinta che le strutture pubbliche, quelle che ancora ce la fanno, passino il tempo ad aiutare solo gli immigrati, lasciando abbandonati gli autoctoni. La mia città è solo un pezzettino dell’Italia decadente, un Paese in cui lo sport preferito è diventato quello di dispensare a destra e a manca offese, colpe e peccati originali, perdendo il senso della realtà e soprattutto quello di civiltà e rispetto che l’hanno reso grande.
Niente di nuovo in fondo, sono storie da cui l’umanità è già passata. E poi diciamocelo, un po’ xenofobo il nostro Paese è sempre stato: dai meridionali che emigravano al Nord, passando per gli albanesi, i vu cumprà, i rumeni e poi loro sempre sgraditi sempre sgradevoli sinti e rom. L’Italia i conti con la xenofobia mica li ha mai fatti. Ma senza generalizzare troppo, oggi cresce un’intolleranza sociale difficilmente controvertibile perché va a braccetto con la crisi economica.
Questa forma di intolleranza si basa su assunti falsi che diventano luoghi comuni tranquillamente assunti dai più. Ci sono sempre stati, ma oggi sono l’argomento forte per nasconderla sotto un velo di razionalità. C’è la crisi, siamo tutti minacciati, si sta peggio, si guadagna meno, c’è meno lavoro e quindi nei territori e nelle pieghe dei bilanci pubblici c’è spazio solo per noi italiani veri. Quindi i “forestieri” vanno osteggiati. E generalizzare piace molto, senza considerare però che, generalizzando veramente, scopriremmo una cosa. Che la bilancia economica della presenza degli immigrati in Italia è in attivo di due miliardi di euro fra spese sociali e tasse sul reddito. Ma le verità non esiste. Le verità sono le convinzioni diffuse.
L’assunto che “integrare conviene a tutti”, sperimentato sul campo e adottato dall’Unione europea, non convince più. Il diritto, che è sempre stato prima di tutto strumento di difesa delle minoranze, viene trasformato in uno strumento di difesa dalle minoranze.
C’è chi lo chiama razzismo, chi xenofobia, chi inciviltà. Chi minimizza, chi esagera. Ci sono ancora molti che lo combattono, ma sta dilagando in un ribollire di insofferenza e violenza verbale molto pericoloso. E così che poi le agende con gli appuntamenti dei ministri finiscono sui giornali. Bisognerebbe stare molto attenti a non diventarne conniventi. Ma nel mio Paese bello e decadente, in crisi e in difficoltà, c’è urgenza di dispensare colpe agli altri senza guardarsi dentro.
Avanti il prossimo.
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