Per carità, nulla di pernicioso nel titolo che Italia Oggi dedica nell’edizione odierna al trafiletto riportante i dati salienti della ricerca Istat, Fondazione Volontariato e Partecipazione e CSVnet sulle attività gratuite a beneficio di altri. Fa un po’ impressione però leggere che “Lavorare gratis piace a 6,6 milioni di italiani”, il titolo usato appunto per stimare il dato sull’impegno volontario basato su un campione di 19.000 famiglie. Nulla di pernicioso, appunto, ma è difficile non leggervi una provocazione, almeno dal punto di vista culturale.
Certo, misurare il valore del lavoro volontario presta il fianco a questa interpretazione se non si accompagna ad operazioni culturali volte a dimensionare correttamente l’importanza in chiave comparativa di applicare un metodo di misurazione tipico del lavoro al volontariato, il quale invece ha una natura ben diversa. E poco misurabile con parametri quantitativi dal momento che i valori dell’impegno volontario risiedono in una pluralità di qualità che vengono esercitate e nelle sue motivazioni di fondo.
Però la questione è seria: perché oggi i confini del sociale tendono sempre a sfumare e le categorie rigide di cui anche le scienze sociali si sono sempre nutrite, spesso comodamente, scricchiolano. Semplificando un po’: una volta c’era il lavoro, autonomo o dipendente, poi c’era il tempo libero e ognuno lo usava come credeva. In tanti decidevano, avendo di che vivere, di usarlo per gli altri e per fare qualcosa in cui credevano insieme alle persone che condividevano quella causa. Così l’Italia, come altri Paesi occidentali, maturando il proprio stato sociale, in mezzo a mille limiti e contraddizioni, maturava anche l’idea che le persone dovessero mettere a disposizione un po’ del loro tempo per chi “rimaneva indietro”.
In mezzo ci sono tante altre cose, ma oggi i confini dell’occupazione sono sempre più sfumati e le situazioni personali che ciascuno di noi vive spesso mescolano i piani, anche quelli “dell’impegno sociale” come si diceva qualche anno fa.
Confessiamolo: il volontariato, come ogni altra opera umana, non è esente da vizi e rischi. Spesso le nostre organizzazioni si sentono onnipotenti, altrettanto spesso crescono fino ad avere come obiettivo principale l’autoaffermazione e l’autoconservazione. Molte volte accettano di confondere volutamente i piani del lavoro e del volontariato, con situazioni di impiego risorse umane che camminano sul quel crinale che separa il volontariato dal lavoro vero.
Ma è proprio per non confondere i piani che ognuno deve fare la sua parte: rinverdire la linea di gesso che separa i confini del lavoro da quelli del volontariato, perché fare volontariato non significa aver piacere nel lavorare gratis e lavorare non deve significare prestarsi gratuitamente in cambio di chimere, speranze o promesse, servendo l’interesse particolare di qualcuno.
Perché chi lavora lo fa per guadagnarsi da vivere e alimenta un’economia dentro ai cui meandri ha tutto il diritto di pretendere giustizia e dignità, mentre chi si impegna gratuitamente lo fa per dare il suo contributo nell’estendere quella sfera di diritti che oggi invece di allargarsi si sta lentamente riducendo. E’ proprio da questo, e dai valori che esercitiamo a partire dal nostro lavoro, che si capisce in che modo il volontariato ha a che fare con il nostro lavoro e la vita di tutti i giorni. Perché a nessuno piace lavorare gratis, figuriamoci a quei 6,6 milioni di individui che si danno da fare per gli altri.
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