Un amico mi mostra sorpreso la lettera di appello che ha ricevuto da una organizzazione non governativa, una di quelle che più in questi anni aveva lavorato per sensibilizzare la cittadinanza a rapporti di giustizia fra nord e sud del mondo, superando ogni approccio compassionevole e pietistico. La lettera è un esempio di strappalacrimismo -termine che non esiste, ma che rende bene l’idea- degno di raccolte fondi di vari decenni fa.
“C’è un bambino che soffre, se non intervieni ad aiutarlo potrebbe anche morire” è il senso di questa comunicazione. Vado a consultare il sito di questa organizzazione e il taglio è molto diverso. Si parla di mondialità e di altre belle cose. Il pietismo lascia spazio al “ganzismo”, vale a dire “state con noi che siamo bravi”.
Due registri diversi, probabilmente per destinatari diversi, provenienti da una stessa realtà. La quale sta facendo legittimamente il suo lavoro che è quello probabilmente di sopravvivere e continuare ad aiutare in zone del pianeta dove la povertà materiale picchia ancora forte. E allo stesso tempo sta cercando, sempre probabilmente, di continuare a pagare gli stipendi di chi ci lavora in questa organizzazione. Nulla di male quindi.
Ma la cooperazione internazionale anche in Italia aveva largamente maturato fra gli anni ’90 e 2000 un approccio all’aiuto che superava il classico paternalismo occidentale (noi ricchi aiutiamo loro poveri) per lavorare su dinamiche diverse, basate su approcci più paritari in cui anche i trasferimenti monetari erano uno degli strumenti di una relazione che faceva crescere donatore e beneficiario e li rendeva cittadini di uno stesso Pianeta da salvare economicamente, socialmente e ambientalmente. Questo in estrema sintesi.
Sulla “buona” cooperazione sono stati spesi fiumi di parole, libri e articoli: da quelli che si ispirano alla teoria che mette in discussione lo sviluppo stesso come una creazione occidentale -fortunata traduzione del libro di Gilbert Rist “The History of Development”- e quindi criticano alla base l’approccio top down (noi portiamo sviluppo ai poveri) a quelli che invece raccontano esperienze bellissime di cooperazione basata su processi di empowerment e scambio -come l’importante “Dalla povertà al potere” nato in ambito Oxfam e tradotto in italiano da Altreconomia.
C’è stato anche chi, con molte buone ragioni, ha addirittura demolito il concetto di aiuto e cooperazione perché ancorato pur sempre ad un approccio coloniale: ieri ti distruggevo, oggi ti salvo, ma sono pur sempre io, occidentale, a decidere la tua vita. Anche qua l’argomento sarebbe lungo, ma credetemi, immensamente affascinante. Ci sono generazioni di persone, anche in Italia, cresciute con esperienze di cooperazione che hanno cambiato il modo di vivere e di guardare al mondo. In queste esperienze, che è più corretto chiamare di solidarietà internazionale, non c’era più spazio per il pietismo, ma solo per una cittadinanza globale che univa il contadino del Mozambico che lottava per la sua sovranità alimentare -che non significa solo sopravvivere, ma vivere con dignità- all’indio che difendeva la sua terra dalla multinazionali, fino ai gruppi di persone che in occidente riorganizzavano i propri consumi e rifiutavano le logiche speculative per curare e rigenerare l’economia locale e il proprio territorio.
Logiche globali alternative a quelle dei mercati banditi, logiche di speranza che sono ancora vive e coltivate in ogni angolo del Pianeta, anche laddove la crisi economica picchia più forte. Ma logiche che sono profondamente diverse dal quel pietismo che oggi torna prepotentemente di moda nel mondo della cooperazione e non solo. Un mondo stressato da una competizione fortissima per le risorse economiche, un mondo che in anni d’oro ha messo in piedi strutture costose che oggi non si può più permettere e spingono le loro dirigenze a dover affrontare, ad esempio, la cassa integrazione proprio laddove si lavorava, e operava anche volontariamente, per liberare il mondo dallo sfruttamento. Un mondo che ha oggi a che fare con una riforma legislativa servita a prendere atto che i tempi sono cambiati e che cambierà ancora il volto della cooperazione come racconta molto bene Luca Martinelli sull’ultimo numero della rivista Altreconomia.
Questo stress, che non è una colpa, ma che porta ad agire diversamente rispetto al passato, sta portando al riproporsi di un approccio all’aiuto di stampo antico, che sia per il Paese dell’Africa o per il senza tetto che incontro per strada. Perché fare qualcosa è già tanto e dunque va bene tutto, anzi è più comodo un approccio superficiale ai problemi che regala l’ebbrezza alle persone di sentirsi in pace con i problemi del mondo, mettendo mano al portafogli o staccando un assegno per una nobile causa, o ancora regalando uno scampolo di tempo, prezioso, libero. Si perché le cause sono nobili, e da rispettare, ma finiscono per essere sempre al di fuori di noi, per essere un qualcosa di così lontano da meritare di essere acquistate, non costruite. Consumate in definitiva, non coltivate.
Allora capisci come mai i bambini denutriti con le mosche che gli ronzano intorno tornano ad essere proposti come strumento di raccolta fondi, capisci come mai gli uffici comunicazione delle Ong diventano uffici pubblicitari. Capisci come mai i messaggi sono semplificati e non parlano più di solidarietà internazionale, ma solo, come se fosse poco, di salvare vite umane. Perché quei bambini con le mosche che gli ronzano intorno esistono ancora, eccome se esistono. E di bambini poveri ce ne sono molti, troppi, anche in Italia, anche dietro casa tua. Non sono invenzioni di Ong assetate di soldi per incassare di più.
No, sono veri. Il fatto è che si era deciso di mostrare di più un altro lato della povertà, quella che oltre a domandare aiuto, regalava anche speranza. Che la speranza di un sorriso porti meno soldi di una triste immagine di pianto non saprei, è un compito che lascio volentieri agli esperti di raccolta fondi -che probabilmente saranno anche in disaccordo fra di loro-.
Ma quel mio amico che ha ricevuto quella lettera ha messo sì mano al portafogli, ma poi si è girato dall’altra parte e ha continuato la sua vita. Il grido dei poveri non l’ha cambiato, non lo ha portato a mettersi in gioco integralmente per fare in modo che quei meccanismi che generano sfruttamento e povertà, strutturali alla nostra stessa economia che ci sta impoverendo, venissero spezzati. Si è trovato molto a suo agio a buttarsi un secchio di acqua ghiacciata e mettere il video su facebook, passando alla prossima buona azione. Perché, intendiamoci, queste sono buone azioni: servono a qualcosa di buono, ma è un qualcosa che si misura quasi sempre con la bontà del gesto e con il beneficio di quel momento, non con il cambiamento che generano. “Curano i sintoni, non la malattia” direbbe qualcuno. Ma la malattia rimane e distorce il senso dell’aiuto, della cura, riducendoli alla beneficenza quando invece ci sarebbe bisogno di altro. Di giustizia, per esempio.
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