Se c’è una cosa difficile nel mondo di oggi, specie nel terzo settore, è parlare di innovazione senza dire banalità o riciclare gli stessi temi che vengono ripetuti da anni. Così quando Andreas Fernandez e gli amici di Non profit network – CSV Trentino mi hanno chiamato a parlare di questo tema, la mente ha cominciato a fumare e non ha ancora smesso. Il titolo della relazione che mi hanno affidato per giovedì 17 dicembre è “Innovare per cambiare, il volontariato protagonista”. Ne parlerò insieme al presidente di cheFare Bertram Niessen e questo amplifica l’ansia da prestazione.
Partiamo dalle domande. Una importante l’ha posta Flaviano Zandonai a Trentino Tv, anticipando il tema del seminario di giovedì 17: come può il mondo del volontariato trovare la carica innovativa che un tempo aveva? Un tempo era sicuramente più facile essere innovativi, perché il campo di sperimentazione possibile era più ristretto e le innovazioni di sistema, comprese quelle tecnologiche, più lente. E c’erano più risorse per tutti. Oggi sono finiti i soldi ed è necessario iniziare ad usare la testa.
Zandonai sostiene che siamo alla fine di un ciclo, che si è esaurita la spinta dei movimenti sociali che aveva generato il terzo settore “contemporaneo” e quindi quella spinta deve diventare altro. Deve vivere una rivoluzione che coinvolgerà l’economia, anche quella del terzo settore, e la pubblica amministrazione. I cambiamenti ci sono, ma nel terzo settore italiano, come in tutto il Paese, si vivono ormai costantemente diverse velocità. C’è un Paese che cresce e un Paese che decresce poco felicemente. C’è un Paese che si arricchisce e uno che si impoverisce. E non è solo questione di giustizia sociale, ma pure di opportunità e capacità.
Una cosa è certa: stando fermi non si cresce, serve investire, c’è bisogno di idee, di muoversi, di fare cose nuove e in modo diverso. Se è vero che l’innovazione è prima di tutti un investimento sostenibile, quello più importante che il volontariato può fare è sulla sua grande ricchezza: le persone. Quelle che costruiscono relazioni sociali, offrono servizi, diffondono speranza. L’innovazione del volontariato si gioca su questo asse: sulla sua capacità di far crescere le comunità in quanto formate da individui uniti da relazioni sociali positive e motivanti.
Non sempre è così e questo è un problema enorme del volontariato: i volontari non sono antropologicamente diversi dai cittadini “comuni” -ho sempre combattuto la retorica del volontario eroe-, e vivono gli stessi vizi delle altre realtà umane. Preoccupa vedere quanti conflitti, quanta sete di potere, quante posizioni di privilegio, quante relazioni di dominio, quanti blocchi al cambiamento, spesso generazionali, si vivono dalle grandi alle piccole realtà di volontariato. E i “pistoleros” che comandano tali realtà dovrebbero capire quanto sia tossica la loro leadership, andare a guardare le anatre nello stagno del parco, lasciando il posto a chi ha voglia di generare e non di frustrare.
Il volontariato innovativo deve rinunciare al potere e non lo sostengo a fini morali. Lo deve fare perché la sua missione principale dovrebbe essere quella di diffondere il potere fra le persone e i territori in cui interviene. Può farlo solo se la sua pratica non è calata dall’alto, se diventa contagiosa e attraente. Zandonai sostiene, giustamente, che è finita l’era degli specialisti. Si è innovativi se sui problemi di interesse collettivo si trovano soluzioni condivise. E con una formula geniale aggiunge: “chi fa volontariato è chiamato non tanto a lottare contro i mulini a vento, ma ad allearsi coi mulini a vento, coi mugnai…“. Il punto è proprio questo: si è innovativi se non si basta a se stessi, se si è capaci di vedere il proprio alleato nel posto più impensabile. Se si va oltre la missione classica, se non ci si concentra solo sul servizio, ma soprattutto sulla rigenerazione di legami sociali. Perchè il servizio è un mezzo e non un fine: questo dovrebbe essere il cuore dell’impegno volontario.
Non basta gestire i rapporti con le amministrazioni. Occorre mobilitare attori che non c’entrano nulla, ma che possono dare un contributo importante. Per questo si è innovatori se si risponde ai problemi facendo in modo che tali problemi non si ricreino. E per farlo occorre proprio rispondere con logiche opposte a quelle che hanno creato il problema: per tale ragione le politiche sociali italiane sono su un binario morto, sono inefficienti e inique, anche se in pochi lo ammettono. E per questo tanti soggetti del terzo settore e della politica hanno paura del cambiamento. Perché il welfare italiano è una grande zona di comfort non solo per le amministrazioni pubbliche.
Se volessimo costruire un’agenda dell’innovazione del volontariato, le priorità secondo me sarebbero semplicemente queste: coinvolgere, motivare e fidelizzare i volontari non solo con un’attività, ma con una visione; generare spin-off dalle associazoni con i quali i soprattutto i giovani sacrifichino la missione classica per creare servizi e legami sociali innovativi; fornire vera formazione professionale e non solo orientata ai servizi, perché l’impegno sociale diventi un completamento concreto alla formazione classica; operare a condizioni che i nuclei beneficiari dell’attività vengano a loro volta coinvolti; limitare al massimo la dipendenza dai fondi delle pubbliche amministrazioni e generare meccanismi innovativi e democratici di finanziamento dei propri servizi; costruire processi di collaborazione aperti a tutti i settori, dal privato profit al pubblico più burocratizzato; infine, e il tema mi sta a cuore in maniera particolare, rivoluzionare la modalità con cui il volontariato si racconta e racconta la sua opera.
Da anni porto in giro (nei soggetti del terzo settore, coi centri di servizio al volontariato, in gruppi giovanili, in aziende) moduli formativi sulla comunicazione efficace a basso costo economico e ad alto investimenti in capitale umano. Mi entusiasmo a vedere i progressi che poi vengono fatti e le azioni innovative che vengono messe in campo. Perché le persone sono la ricchezza del volontariato e il suo più grande potenziale di cambiamento. E nelle persone occorre investire per rendere migliori le nostre organizzazioni. Il vero leader deve capire questo, non abbarbicarsi alle proprie abitudini e visioni come se fosseroro le uniche. “Chi non sa stare a tempo, prego andare” cantava Enzo Jannacci. È proprio così. Dobbiamo cambiare tutto perché si è capaci di innovare solo se si è migliori, se si accetta di essere nuovi ogni giorno. Molti non saranno contenti, altri non capiranno perché. Tanti altri faranno il tifo perché se c’è una cosa che può attecchire nel nostro Paese dei lamenti è proprio il cambiamento perché c’è troppa stanchezza. Per questo occorre farlo subito e senza chiedere il permesso.
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