I media non mollano l’osso sui “furbetti del cartellino”: i fatti di Sanremo sono diventati per molti la cifra del malcostume italiano, mentre il dipendente pubblico ha tatuato addosso irreversibilmente lo stigma del fancazzista.
Fumo negli occhi, l’ennesimo polverone italico per fare becera campagna politica o mediatica, sparando a caso, quando invece al centro del bersaglio non ci dovrebbero stare gli assenteisti, ma i “presenti assenti”. E non dovremmo sparargli, ma salvarli.
Mi spiego: fra tutti i problemi della pubblica amministrazione, come ce ne sono molti nel profit e nel non profit, il più scandaloso non è l’assenteismo -che fa schifo e va perseguito ovviamente-, ma la drammatica incapacità di alcune amministrazioni pubbliche, specialmente gli enti locali, di avere un impatto positivo sulla società. Non solo di funzionare, ma di essere utili. Non basterebbero tonnellate di saggi per scandagliarne i motivi, ma basta qualche frase per capirne le dimensioni: pensate a quanti sono i servizi di un Comune che veramente aiutano i cittadini a vivere meglio e a quanti invece sono un blocco, se non una tassa, sbattuta continuamente sui denti. Pensate alle inefficienze, alla mancanza di coordinamento fra uffici, all’arretratezza dei mezzi, al pessimo clima organizzativo e lavorativo.
Ma occorre capirla, prima ancora di giudicarla, questa inefficienza diffusa: per farlo basterebbe spostare l’attenzione dai furbetti del cartellino agli onesti (frustrati) del cartellino. Quelli che la mattina timbrano e stanno anche sul pezzo, ma sentono che il loro lavoro oltre che organizzato male è scarsamente produttivo. Vuoi perché i dirigenti non sanno dirigere, vuoi perché i servizi sono antiquati, vuoi perché gli assessori non sanno cambiare, vuoi perché i colleghi sono incapaci, vuoi perché nessuno, dico nessuno, si pone più il problema di come rendere utile il loro lavoro.
E vuoi, perché non è sempre colpa degli altri, perché nella pubblica amministrazione i volenterosi non sono mai valorizzati e sono loro i primi ad adagiarsi nell’attendere che suoni la campanella per tornare a casa anche quando avrebbero i mezzi per dare molto alla società. Chi te lo fa fare? E allora vedi quelle facce frustrate e arrabbiate, quelle menti spente, mentre un Paese va a rotoli e una cultura dell’amministrazione pubblica non esiste più; li senti pronunciare le parole “ormai per me è solo uno stipendio”, una frase che fa male, anche perché quello stipendio lo paghiamo anche noi con le nostre tasse. Perché ormai la principale voce di spesa delle pubbliche amministrazioni sono gli stipendi del personale e quegli stipendi generano poco. E continuiamo a non realizzare che il valore aggiunto della grande azienda statale chiamata pubblica amministrazione dovrebbero essere proprio le persone che vi lavorano.
In questo modo il pubblico diventa sempre più antagonista del cittadino, vessatore, e non alleato. Mentre l’età media dei dipendenti pubblici avanza, i giovani con idee e entusiasmo non entrano più. Mentre ci sono tanti professionisti con competenza e capacità intorno ai quali viene fatta terra bruciata. E non sarà una riforma del governo a cambiare le cose, ma un risveglio mentale, un sussulto di dignità che è ancora lungi dall’arrivare. Ma soprattutto la consapevolezza che l’amministrazione pubblica per avere un senso non può bastare a se stessa, ma deve aprirsi e agire in alleanza con il tessuto sociale, economico e culturale. Di esempi di cose che funzionano -qualcuno le chiama ancora buone pratiche- ce ne sono a migliaia. Non ne parla nessuno, perché fa più notizia un furbetto del cartellino che mille onesti.
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