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Caso Hershey: vittoria dei cittadini, non si vende pi

Il big del cioccolato americano ha dato ascolto ai suoi dipendenti e non vende più ai colossi del settore

di Carlotta Jesi

La Hershey Foods Corporation, colosso del cioccolato americano, non è più in vendita. Lo ha annunciato il 18 settembre la charity che la controlla e che, all’inizio del mese, aveva deciso di cedere una parte delle sue azioni alle grandi multinazionali alimentari. Scontrandosi con la volontà dei suoi dipendenti preoccupati che i nuovi padroni dell’azienda non avrebbero portato avanti l’impegno sociale e le attività filantropiche dell’attuale gestione.

È una decisione importante: per la prima volta nella storia di una grande compravendita, la volontà dei dipendenti ha avuto maggior peso di quella degli azionisti. E le valutazioni sull’impatto sociale dell’operazione hanno prevalso su quelle relative al fatturato.

Ripercorriamo le fasi di questa storia:
Il 4 settembre, la globalizzazione s’è fermata a Hershey, Pennsylvania. Una cittadina di 22mila anime dove un giudice ha bloccato la vendita della locale azienda cioccolatiera finché non avrà valutato l’impatto umano della sua cessione ai big dell’alimentare interessati a comprarla: la svizzera Nestlé, l’americana Kraft Foods e l’inglese Cadbury Schweppes.
Per capire l’importanza di questa decisione, bisogna tornare indietro di qualche giorno. All’inizio di settembre, quando per le strade di Hershey, che si chiamano Cocoa Avenue e hanno lampioni a forma di gocce di cioccolato, 5mila cittadini cominciano a protestare contro la messa in vendita della Hershey Foods. Per la Nestlé, un affare da 4,5 miliardi di dollari di fatturato che le consentirebbe di aumentare il suo controllo sul mercato del cioccolato americano dal 7 al 38%.
Per i cittadini scesi in piazza a protestare, invece, l’Hershey Foods, creatrice di prodotti di successo come lo snack di cioccolato Kit Kat e le Bubble Gum, è molto di più. È l’azienda, fondata 180 anni fa dall’imprenditore filantropo Milton S. Hershey, che dà lavoro a 6.200 persone, il 27% della popolazione, e che ha creato l’ospedale, la libreria, lo zoo, la banca, il parco giochi e il grand hotel locali.
Un capitale sociale che l’intera città ha paura di perdere se la proprietà dell’azienda passerà alle grandi aziende alimentari straniere. Da qui le proteste contro il Milton Hershey School Trust, la charity che possiede il 77% dei diritti di voto della compagnia e che ha deciso di metterla in vendita nell’interesse dei suoi beneficiari. Ovvero i 1.200 bambini con difficoltà finanziarie o familiari che studiano e vivono gratis nella Milton Hershey School, per ciascuno dei quali l’azienda spende 96mila dollari l’anno. Cosa ci guadagnano questi bambini dalla vendita? Il Milton Hershey School Trust spiega che deve diversificare il suo portfolio: il 56% dei suoi 5,4 miliardi di dollari sono investiti nella Hershey Foods, troppo rischioso coi tempi che corrono in America.

La filosofia della prosperità
Ma in Pennsylvania non ci credono. Alle proteste dei cittadini, cui partecipano anche due ex amministratori delegati della compagnia in vendita, si è unito anche il procuratore dello Stato, Mike Fisher: ha chiesto ai giudici del Paese di far bloccare l’affare e di ordinare che tutte le proposte di vendita vengano approvate da un tribunale. Ma è stato accontentato solo in parte. La charity che controlla Hershey Foods è ricorsa in appello contro la decisione del giudice. E dal quartier genere della Nestlé, in Svizzera, arrivano voci di una possibile alleanza con la Cadbury per portare a termine l’acquisto. Comunque vada a finire l’affare, però, Fisher ha trasformato l’acquisto della Hershey in un processo al capitalismo senza impatto socio ambientale. Più che delle azioni della compagnia, infatti, oggi si parla della filosofia della linked prosperity che l’ha portata al successo: la prosperità deve riguardare non solo il prodotto ma anche le persone che lo realizzano e la comunità in cui vivono.
Una business strategy che era finita sulle prime pagine dei giornali già nell’estate 2000, per il caso Ben&Jerry-Unilever. La Ben&Jerry, un’azienda americana produttrice di gelati nota per la sua responsabilità sociale e le sue vendite per 237 milioni di dollari, aveva accettato di farsi comprare da Unilever solo a patto che il colosso anglo-olandese di beni di largo consumo portasse avanti il suo impegno verso l’ambiente e la società. Unilever accettò: pagò 326 milioni di dollari per l’azienda e fu costretta a donare 5 milioni di dollari alla Ben&Jerry Foundation, altri 5 milioni di dollari per il suo Fondo di venture capital per piccoli imprenditori sociali e 1,1 milione di dollari, per 10 anni, con cui sostenere le attività filantropiche della compagnia.
Allora non ci fu bisogno di mettere di mezzo un giudice. Oggi sì, e la sua decisione di misurare l’impatto umano e sociale degli affari potrebbe diventare un precedente.

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