C’è un aspetto chiaro dell’incontro in Vaticano tra Shimon Peres e Abu Mazen sotto lo sguardo di papa Francesco e del patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I: non è stato un incontro interreligioso. Lo aveva detto il francescano Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa: «Non è un incontro interreligioso. E’ un incontro di preghiera dei due popoli, israeliano e palestinese, all’interno dei quali sono presenti ebrei, cristiani e musulmani». Quindi è stato un incontro di due popoli da decenni in conflitto tra di loro e che hanno trovato nelle rispettive preghiere una modalità per sciogliere l’incomunicabilità. Francesco è stato un tramite partecipe a sua volta con la preghiera; ma non ha voluto essere altro che un tramite. Era stato a sua volta chiarissimo nel dialogo con la stampa tornando dalla Terrasanta: «Prima farò un chiarimento su questo incontro in Vaticano: sarà un incontro di preghiera, non sarà per fare una mediazione o cercare soluzioni, no. Ci riuniremo a pregare, soltanto. E poi, ognuno torna a casa». La preghiera come luogo ed esperienza di relazione: questa è la semplice e straordinaria intuizione di Francesco.
La chiesa di Francesco non concepisce il suo ruolo come laboratorio di soluzioni, ma come punto di interconnessione. È una chiesa che spinge a parlarsi, a riallacciare relazioni; che crede nel valore “positivo a prescindere” dell’incontrarsi. L’incontrarsi poi ha sempre un risvolto e un valore politico, aldilà delle cose che ci si dice: è un riconoscimento reciproco. Shimon Peres stringendo la mano ad Abu Mazen inevitabilmente riconosce ciò che Abu Mazen rappresenta: cioé quel governo di unità con Hamas, che a Israele era andato tanto indigesto (da leggere l’analisi del sito Piccole note).
Ma la cosa più innovativa (nel suo essere assolutamente antico) è il metodo di Francesco. Metodo che applica anche alle vicende della chiesa. Sentite infatti come si è espresso sempre nel dialogo con i giornalisti, rispetto al rapporto con la chiesa ortodossa: «Abbiamo parlato dell’unità: ma l’unità si fa lungo la strada, l’unità è un cammino. Noi non possiamo mai fare l’unità in un congresso di teologia. E lui mi ha detto che è vero quello che io sapevo, che Atenagora ha detto a Paolo VI: “Noi andiamo insieme, tranquilli, e tutti i teologi li mettiamo in un’isola, che discutano tra loro, e noi camminiamo nella vita!”. È vero, io pensavo che fosse… No, no, è vero. Me l’ha detto in questi giorni Bartolomeo. Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme in tante cose che possiamo fare insieme, aiutarci insieme».
Un grande lezione non di morale, ma pragmaticamente di sana psicologia.
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