Famiglia

Contro il disagio: reti e non isole

di Simone Feder

Ai giorni nostri siamo purtroppo abituati a vedere il disagio solo come peso e realtà da sfuggire o, ancor peggio, insabbiare e allontanare il più possibile dalla nostra vista (e dal nostro cuore). Basti pensare all’etimologia di questo termine che arriva dal latino “dis-adiacens” e che indica”colui che non è adiacente, colui che non giace presso, colui che non sta vicino a“.

Qualcosa quindi che sta ‘ai margini’ di una normalità che accomuna chi invece disagi non ne ha.

Ma è realmente possibile oggi definire in modo chiaro questa normalità? Stabilire chi deve stare lontano da chi.

Arreca più disagio il padre di famiglia che non ha la possibilità di mantenere i propri figli portando avanti le proprie responsabilità di capo famiglia o piuttosto esponenti della classe dirigenziale del Paese che non si prendono carico delle necessità dei cittadini a favore del proprio tornaconto personale, perdendo così di vista le proprie responsabilità?

E allora chi deve essere allontanato? Chi è il vero disagiato?

Vista la difficile situazione del welfare, la fatica a fare in modo che i servizi indispensabili possano essere accessibili da tutti, è forse il caso di rivedere il nostro concetto di disagio e lavorare verso una politica di inclusione che favorisca l’ottimizzazione e la creazione di nuove risorse.

Tutta la comunità Sociale è importante che si faccia carico delle difficoltà di ogni persona in modo da creare reti virtuose di aiuto e sostentamento che, sfruttando e valorizzando le potenzialità dei singoli, possano mettere in comune le ricchezze necessarie per il sostentamento di tutti e in particolare dei soggetti più fragili, evitando di creare ghetti per disagiati.

Puntare su interventi di prevenzione che valorizzino le potenzialità degli individui risulta fondamentale rispetto all’abbattimento di costi oggi e in futuro. Prendersi in carico dei giovani in modo da guidarli e accompagnarli nelle loro scelte di vita e nei loro percorsi di formazione e creazione di identità forti e consapevoli, questo permetterebbe di avere adulti in grado di essere risorsa per gli altri e non gravare ulteriormente sulle già fragili finanze del Paese.

Pensiamo alle spese per infiniti e cronicizzanti trattamenti di recupero, prese in carico ai servizi che durano decenni con situazioni che si incancreniscono e aggravano nel tempo. Troppo spesso manca una vera cultura della valutazione che verifichi l’effettiva validità degli interventi anche a lungo termine.

È importante combattere il disagio arrivando prima, includere invece di escludere, creare reti e non isole solitarie. Per fare ciò è però indispensabile promuovere una cultura diversa, che abbia alla base non il puro arrivismo e arricchimento personale, ma sia guidata da uno spirito di solidarietà e corresponsabilità generale. Quando una persona si avvicina al mondo del volontariato, attività sempre più spesso accantonata e raramente proposta anche alle giovani generazioni, si rende poi conto che entra in una realtà per ‘dare’ ma è molto di più quello realmente ‘riceve’.

Penso a quei docenti che liberamente scelgono di offrire la loro disponibilità ad accompagnare i giovani inseriti in comunità terapeutiche nel loro percorso di studi, portano poi all’interno dell’ambiente scolastico in cui lavorano tutto ciò che lo stare a contatto con questi ragazzi lascia a loro. Affrontano così il loro impegno quotidiano con un bagaglio di esperienze e conoscenze maggiore da spendere anche con i loro alunni.

Non stanchiamoci di chiederci e interrogarci su quale modello offriamo oggi ai giovani. Quali messaggi passano dai mass-media, dai discorsi degli adulti, dalle azioni di chi dovrebbe prendersi cura del paese in cui viviamo?

Nessuno può esimersi del sentirsi chiamato in causa, bisogna smettere di ragionare solo attraverso il concetto di delega, ma rimboccarsi le maniche e lavorare per una progettazione di inclusione sociale che abbia uno sguardo sempre più ampio verso il futuro e un’attenzione sempre maggiore a chi ci è prossimo.

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