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Isernia mia,io ti salver

Terza per qualità della vita, prima per sicurezza: pare un’oasi felice, eppure quattro ragazzi vi sono morti per droga in pochi giorni.

di Giacomo Ratti

«Ma quale ?città più vivibile?! Isernia è una torta che sta andando a male, altro che!». È sarcastica Maria Imposimato. Può permetterselo, questa insegnante di 50 anni il cui sguardo sa posarsi su ogni stortura della sua città: anche quelle di cui politici, industriali e giornalisti non s?accorgono. Per questo, a sentire esaltata Isernia come ?paradiso in terra?, a Maria scappa quasi da ridere.
Molti si stupirono, a dicembre, quando la classifica del ?Sole 24 Ore? sulla qualità della vita piazzò Isernia al terzo posto, dopo Piacenza e Sondrio. Un risultato che la cittadina molisana doveva al basso prezzo degli appartamenti, al traffico contenuto, ai posti in ospedale, ancor più al non conoscere omicidi, rapine, furti d?auto, furti negli appartamenti, stupri. Dati ora confermati da una ricerca della Lega delle autonomie locali, che ha eletto Isernia ?città più sicura?.
Un?oasi felice, dunque? Maria Imposimato storce il naso, lei che è schierata da decenni dalla parte di chi ha bisogno. E il bisogno, nella ?vivibile? Isernia, può esplodere in modo drammatico. Come hanno dimostrato le morti di quattro ragazzi per overdose, l?anno scorso nel giro di pochi giorni: tragedie che forse non rientravano nelle ?categorie? prese in considerazione in quelle ricerche.

Donna di un’altra categoria
Maria però è donna ?di un?altra categoria?. Con un?esperienza eccezionale di condivisione del bisogno, quello immediato e vicino. I suoi studenti, al liceo psico-pedagogico, la adorano e la seguono in ogni iniziativa, come raccogliere fuori dei supermercati pasta e zucchero per le famiglie bisognose. Orfanelli abbandonati, albanesi senza speranza, ragazzi minacciati dalla droga, zingarelle emarginate, anziani soli, disoccupati presi per il collo dagli strozzini… Di chi non si occupa Maria? E siccome l?amore chiama amore, continua a fondare associazioni, allargando l?orizzonte ad abbracciare il mondo, chiedendo fondi per un missionario nel Ciad, raccogliendo firme contro la pena di morte, fondando una sezione di Amnesty. Locale e universale, perché locale è universale: l?esperienza di Maria sembra una metafora dell?essere molisani, di gente spesso partita per il mondo con un?idea in testa: tornare a casa, a costruire qualcosa di utile.
La cultura dell?accoglienza, Maria ce l?ha nel sangue. L?ha assorbita da quando abitava a Miranda, paesino a sette chilometri da Isernia, le case incollate a una piramide di roccia. «Per andare in città c?era solo il pullman, la mattina e la sera, alle sei. E casa nostra era un porto di mare, dove si poteva aspettare la corriera al caldo. Per tutti, mia madre preparava grandi zuppiere di maltagliati. E a volte fino a dieci persone si fermavano a dormire. Mia madre cedeva pure il suo letto, si portava un materasso in cantina, senza farsene accorgere».
Ecco dove nasce in Maria la capacità di aprirsi al bisogno, quella per cui s?è ?inventata? forme di affido familiare ben prima che la legge lo codificasse. «Trent?anni fa cominciai a seguire dei bambini senza sapere neppure cosa fosse, l?affido. Mi sono laureata il 17 dicembre 1972, e il giorno dopo bussavo dal vescovo. All?epoca non avevo la fede, però ero sensibile. Avevo fatto il ?68, poi all?università ero diventata radicale, seguivo Pannella. ?Eccellenza?, dissi al vescovo, ?nell?orfanotrofio ci sono questi bambini lasciati a se stessi. Posso provare a insegnargli qualcosa??. Iniziammo a far lezione in dieci insegnanti, presto rimasi sola. Ma continuai. C?era una bambina che rideva e piangeva assieme. Io non sapevo neppure cosa fosse la violenza carnale, ero ingenua. Dovevo sposarmi, ma quella bambina aveva bisogno di me, di noi. E così anche sua sorella. Per farla breve, quelle due ragazzine diventarono parte della nostra famiglia. Con Pino, mio marito, le abbiamo seguite e portate fino all?altare. Ora vivono come principesse, adorate dai mariti, felici. Ma la loro prima famiglia continua a essere la nostra».
La casa di Maria e di Pino, d?altronde, è sempre stata aperta a chiunque. «Un giorno arriva l?allora presidente della Regione Molise, Santoro: ?Maria, ti devo chiedere un favore?, mi fa. ?C?è un ragazzo albanese… Ti puoi occupare di lui?? Un presidente di Regione che chiede a un semplice cittadino di sistemare qualcuno! Di solito avviene il contrario… Era da poco caduto il regime comunista. Così arrivò Eduard, un giovane pediatra di Valona, di famiglia colta. Non era un albanese come gli altri, attratto dal consumismo. Voleva tornare a fare il medico per il suo popolo, e così ha fatto. A Valona sono andata a trovarlo: uno choc, mai mi sarei aspettata un simile squallore».

Dalla parte di albanesi e rom
Maria insomma non si fa problemi ad aiutare chiunque, albanese o zingaro. E a Isernia di rom ce ne sono tanti, insediati da un secolo. «C?era Nella, una zingarella oligofrenica abbandonata dalla sua numerosa famiglia. Ho coinvolto un po? di persone, ognuno dava quel che poteva. Una signora mi passava trentamila lire al mese per comprarle mille lire di carne trita al giorno. A 26 anni l?abbiamo fatta cresimare. Ora sono riuscita a farle avere una pensione sociale».
Altro che Isernia ?oasi felice?… «Qui eravamo così sensibili, ora c?è una freddezza… Isernia non ha avuto il tempo per digerire il progresso. Gli isernini hanno fatto un salto, da contadini a intellettuali con le lauree ma senza cultura vera. Prima puntavano ai soldi, poi al figlio laureato e alla villetta al quartiere San Leucio. E sono diventati indifferenti. Il commercio è in uno stallo pauroso, l?artigianato è stato distrutto dall?industria e dalla nascita della Provincia, nel 1970, che ha creato solo burocrazia pubblica e cariche politiche. È esplosa la mania del presenzialismo…».
E dell?emergenza droga non importa a nessuno… «Sono morti quattro ragazzi in pochi giorni, per una partita di eroina tagliata male. Allora ho fatto un volantino, ho organizzato una marcia di tremila persone, qualcosa di mai visto a Isernia. Poi con ?Progetto G?, la onlus che abbiamo creato per soccorrere il bisogno dei giovani, stiamo dando vita a un centro sociale, aperto a tutti. E intanto porto avanti cinque famiglie. Il mio telefono squilla già alle sette di mattina: Maria devo fare le analisi, Maria le bambine non hanno il latte, Maria non ho da mangiare. Gente che non rientra nelle statistiche. Una rete di persone mi aiutano. Io faccio la spesa per chi ha bisogno, compro sempre la roba migliore: solo perché sono poveri bisogna dargli la roba cattiva? Gli compro il parmigiano, quello vero. I servizi sociali gli portano del riso che non lo vogliono nemmeno i cani.
C?era una famiglia di sette persone, poverissima, in frazione Fragnete, ammassata in una stanza con pecore e galline, senza il bagno. I bambini facevano pipì fuori, anche con la neve, avevano cistite e otite croniche. Ho messo a soqquadro il Comune, la Curia, la Regione. Alla fine ho potuto costruirgli degli altri locali. E dalla finestra ho buttato tre carrelli di panni vecchi. Perché ai poveri i vestiti vecchi non mancano mai, la gente gliene dà a caterve, pur di disfarsene. E poi si sente a posto. Anche in una città ?vivibile? come Isernia».

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