Reintrodurre il futuro. Come una dimensione del fare cultura.

di Noemi Satta

Mi sembra che sia questa la necessità primaria e più urgente di un’agenda politica, di un’agenda di operatori, formatori, volontari per il mondo culturale.

Racconterò di un episodio e di un epilogo, accaduti nella stessa giornata, il 24 gennaio 2013, nella stessa città, Milano, in due sedi universitarie, Bovisa, Politecnico Dipartimento del Design, e Bicocca, Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale.

Comunicare bene.

All’interno del corso di Narrazione tenuto dal prof Pinardi per gli studenti di Design, sono stata invitata a raccontare come si racconta la cultura. Ho portato diversi casi: la onnipresente Zuppa, la meno conosciuta Panda, e infine il quasi nascosto caso della Galleria Parmeggiani, dei Musei Civici di Reggio Emilia.  Quest’ultimo è un lavoro vecchio, ma non inattuale, sul disvelamento delle storie nascoste di uno spazio museale. Il caso presentato, certamente perfettibile, ha la particolarità di non concentrarsi esclusivamente sulle tecnologie (in questo caso il podcast, modalità che nel 2009 era all’apice della diffusione come strumento di divulgazione e di costruzione collettiva dei contenuti, user generated content, e soprattutto si basava sull’ampia distribuzione dell’ipod e di altri mp3 player), ma sul racconto e la sua costruzione, sull’attenzione al dato quasi etnografico del reale, dal timbro di voce dei narratori scelti (conservatori museali, designer, scrittori, architetti) al tipo di fruizione immaginata per questo strumento. La sfida del progetto era riuscire a raccontare le molte storie di questo museo (e allargando di ogni museo): storie di un collezionista che era anche un personaggio da feuilleton (un anarchico, un falsario, un dongiovanni, e infine un mecenate), della produzione artistica ottocentesca, storie di vero e di falso, e del senso di questa distinzione attualizzata ad oggi. E nonostante i non pochi difetti possa riconoscere in questo progetto di oltre un triennio fa, non riesco a non osservarne la silenziosa rivoluzione che in nuce ha portato all’interno di quello spazio museale.

“È un carattere proprio dei nostri musei, e delle istituzioni culturali in generale, che sottovalutano, in poche parole, l’importanza di comunicare e di farlo bene”. Dico così a una platea di studenti attenti, designer in erba coinvolti curiosamente da questo mio argomentare non legato ai tecnicismi della comunicazione, ma più al senso del comunicare e della comunicazione in cultura. Mi chiede uno studente, che sembra non capire: “Come mai?”

Ho liquidato velocemente questa domanda così semplice e così importante. Come si farebbe con i perché di un bambino. Quelli che a prenderli bene e con il giusto tempo ti farebbero ribaltare il mondo. Ma ho pensato tutta la sera a quel perché.

Perché è così difficile comunicare bene?

Forse perché la dimensione del futuro è assente.

Non semplicemente in termini di risorse economiche, finanziarie, umane; certo la continua carenza di sostegno ha messo in un perenne stato di allerta e di fatica le istituzioni italiane, che si trovano troppo spesso a fare di più con meno come si ama dire da più parti. Mancano le politiche e la governance, manca un disegno strategico, organico, armonico, che punti in alto e che sia frutto di pensieri lunghi. Questa specificazione va fatta, e serve anche per capire qual è l’elemento innovativo di questo progetto. La “forma museo”, troppo spesso, è concentrata sulla sequenza espositiva che l’allestimento museale propone, e dimentica talvolta, se si escludono le iniziative rivolte alle scuole, di fare mediazione e soprattutto di attrarre, affascinare, catturare l’attenzione. In una sola parola, di raccontare. Dimenticare di raccontare aumenta il rischio di non riuscire a coinvolgere, di non agevolare la partecipazione. Dimenticare di raccontare significa rinunciare a fare cultura.

L’epilogo è quasi un post scriptum.

Ascolto in platea la presentazione di un libro sulla sociologia dell’infanzia. Sono coinvolta per questioni di affetto e di parentela con l’autrice, ma al di là di tutto è stato l’insieme delle personalità coinvolte a colpirmi. Siamo in Bicocca , si parla di childhood sociology, sociologia dell’infanzia. È una nuova corrente per l’Italia, e per la sociologia italiana, e richiede a ricercatori e operatori di entrare in modo nuovo nella complessa relazione tra adulti e bambini, e di osservare, in dialogo continuo, immaginari, rappresentazioni, desideri. Si parla di futuro, anche qui, in un modo estremante concreto, tanto da avere a che fare con la qualità della vita quotidiana, dei tempi e degli spazi, con la qualità della partecipazione alla vita pubblica.

A chiusura di uno degli interventi principali un augurio: “buon futuro!”.

A fine giornata, pensando alle due aule universitarie, alle diverse platee e settori coinvolti, mi dico che è proprio un augurio giusto, quello di rimettere il futuro, la dimensione del futuro, nelle nostre agende.


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