Non profit

Il crimine e il suo profitto

di Sergio Segio

I tagli al sociale in tempi di crisi, sono «un controsenso dagli effetti incalcolabili», ha detto recentemente il gesuita padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, schierandosi al fianco degli organismi rappresentativi del Terzo settore e degli Enti locali. Sulla stessa lunghezza d’onda, l’ANCI, per bocca di Lorenzo Guerini, sindaco di Lodi e delegato nazionale dell’associazione dei Comuni per il Welfare, a inizio luglio aveva dichiarato: «Destinare meno di 11 milioni di euro alle politiche sociali dei territori con il Fondo nazionale delle Politiche sociali 2012 sembra proprio una provocazione».
Il testo infine votato dal Senato sulla spending review (che alcuni, forse insofferenti all’inglese e alle ipocrisie linguistiche, traducono in «macelleria sociale») alla fine, grazie alle proteste e all’approvazione di alcuni emendamenti, è risultato meno punitivo nei confronti di volontariato e non profit di quanto non fosse inizialmente.
Non di meno, i problemi di fondo rimangano e restano obiettivamente drammatici, come documentano tutti gli indicatori statistici. Quelli più recenti sulle povertà, elaborati dall’ISTAT, mostrano che nel 2011 le famiglie in condizioni di povertà relativa sono arrivate a 2 milioni e 782 mila, mentre le singole persone relativamente povere sono ben 8 milioni e 173 mila; per quanto riguarda la povertà assoluta, nel 2011 essa ha colpito 3 milioni e 415 mila individui e 1 milione e 297 mila famiglie.
Sempre l’Istituto nazionale di statistica, pochi giorni fa, ha ufficializzato che la disoccupazione in Italia ha raggiunto nuovi record negativi, con 2 milioni e 800 mila persone senza lavoro, lo stesso livello di 25 anni fa, mentre quella giovanile, al 34,3%, ha superato i livelli dei Paesi che hanno visto le rivolte della Primavera araba.
Non che altrove vada meglio, a ennesima riprova che le difficoltà (e dunque le soluzioni) sono di sistema, non di Paese: nei Paesi dell’OCSE i disoccupati sono arrivati a 48 milioni, con una crescita di quasi 15 milioni di unità rispetto all’inizio della crisi del 2007.
Da anni, numerose organizzazioni attive nel sociale e nell’accoglienza vanno ripetendo che «il welfare non è un lusso» e che andrebbe invece considerato un investimento e un moltiplicatore di sviluppo. Come vediamo, invece, tagli e sacrifici si indirizzano (e non solo da parte dell’attuale governo, che tuttavia pare averne fatto il perno del proprio programma) di preferenza proprio verso questo segmento della spesa pubblica.
Il Patto fiscale imposto dall’Europa prevede di ridurre in vent’anni il debito pubblico al 60% del PIL. Ciò per l’Italia si traduce in una riduzione di circa 50 miliardi l’anno da qui al 2032. Una «cifra mostruosa» che, ha scritto Luciano Gallino, su “la Repubblica” del 30 luglio, «lascia aperte solo due possibilità: o il patto non viene rispettato, o condanna il Paese a una generazione di povertà».
In verità, esisterebbe una terza opzione, decisamente la più improbabile, ma anche la più equa e maggiormente efficace: quella di una seria misura patrimoniale sulle grandi ricchezze. L’hanno avanzata in passato figure del calibro di Giuliano Amato e Alessandro Profumo, non un redivivo Fausto Bertinotti. Profumo, proponendo una patrimoniale da 400 miliardi di euro, un anno fa ipotizzava che solo un governo tecnico avrebbe potuto varare quella necessaria misura. Il governo tecnico è arrivato, ma da molto tempo l’idea stessa di patrimoniale è scomparsa dal dibattito parlamentare ed economico, dai media e dall’agenda politica. È divenuta una parola proibita che solo la CGIL ogni tanto prova flebilmente a nominare.
Intanto, i governi europei (quello italiano tra i primi e con le minori resistenze parlamentari e sociali), stanno falcidiando pensioni, salari, spese per la sanità, l’istruzione, l’assistenza e tartassando il pubblico impiego. Eppure, ricorda il sociologo Gallino, la difficoltà dei conti pubblici, che certo è reale, «è dovuta principalmente ai 4 trilioni di euro spesi o impegnati nella UE al fine di salvare gli enti finanziari». Vale a dire, i responsabili della crisi. Che hanno così messo in atto un delitto perfetto.
Chi ha mai detto che il crimine non paga?

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