Ci sono voluti alcuni decenni, ma finalmente gli Stati Uniti sembrano aver preso atto di una verità che tanti denunciavano inascoltati da anni, mentre il coro mainstream teorizzava invece di “far toccare il fondo” ai tossicodipendenti: la war on drugs ha gonfiato le carceri di poveracci e svuotato le casse pubbliche.
Così il procuratore generale Eric Holder ha recentemente annunciato una riforma per ridurre il sovraffollamento delle celle, dove ci sono 140 detenuti ogni 100 posti. Esattamente lo stesso tasso record italiano, dove i numeri sono ancora più tragici, poiché i posti disponibili sono in realtà assai meno dei 47 mila dichiarati ufficialmente, a fronte dei 64.873 detenuti presenti a fine luglio.
Secondo Holder, al vertice della giustizia statunitense, il sistema di pene attualmente in vigore determina il fatto che un numero eccessivo di cittadini americani finisce in cella per un tempo eccessivo e molto spesso per piccoli reati, in particolare legati alle droghe. Sul milione e trecentomila detenuti nel 2011 nelle sole prigioni statali statunitensi (vi sono poi quelle federali e quelle locali) 225 mila lo erano per reati di droga.
Questo eccesso di penalizzazione determina, ha constatato il procuratore, un «circolo vizioso di povertà, criminalità e carcere che intrappola troppi americani e indebolisce troppe comunità».
Più che una resipiscenza rispetto alle durezze e alla disumanità del sistema carcerario, tuttavia, le preoccupazioni maggiori sembrano riguardare il suo costo: 80 miliardi dollari nel 2010, secondo il Dipartimento di Giustizia. Anche questo un perverso – ma del tutto prevedibile – risultato di quella “guerra alla droga” lanciata da Ronald Reagan negli anni Ottanta del secolo scorso, in base alla quale, ad esempio, si può essere condannati a un minimo di 5 anni senza condizionale per il possesso di 5 grammi di crack. Da allora il trend delle incarcerazioni nelle prigioni federali è lievitato dell’800%; una crescita esponenziale che ha fatto incrementare in parallelo il business della privatizzazione del sistema. Ciò ha portato, in soli tre decenni, quel paese a un non invidiabile primato: quasi il 25% dei detenuti di tutto il mondo sono nelle celle degli Stati Uniti, la cui popolazione è il 5% di quella mondiale. Centratissimo e anticipatore, dunque, il saggio del criminologo Nils Christie pubblicato nel 1994 con il titolo Il business penitenziario − La via occidentale al gulag.
Alla resipiscenza, pur tardiva, non sembra invece disponibile l’Italia, nonostante i rilievi della Corte di Cassazione, che ha rinviato alla Corte Costituzionale la legge sulla droga (legge 21 febbraio 2006, n. 49, cosiddetta Fini-Giovanardi) per una valutazione di legittimità. E nonostante le tante condanne della Corte europea per i diritti umani, che, da ultimo, ha imposto al nostro paese di provvedere entro un anno a una soluzione ampia e strutturale al problema del sovraffollamento penitenziario, pena sanzioni e risarcimenti miliardari.
La normativa in vigore in Italia è l’evoluzione, ancor più repressiva e ideologica (tanto da equiparare droghe leggere e pesanti), di quella voluta, anzi imposta, da Bettino Craxi alla fine degli anni Ottanta (legge 26 giugno 1990, n. 162, cosiddetta Iervolino-Vassalli), proprio a seguito di un viaggio negli USA e di una fascinazione per la filosofia e la legislazione della tolleranza zero (e forse per la prospettiva della privatizzazione delle carceri).
Gli effetti, fatte le proporzioni, sono analoghi a quelli verificati negli Stati Uniti: sono ben 853.004 le persone colpite da sanzioni amministrative per possesso di sostanze stupefacenti in poco più di 20 anni. Una repressione tanto estesa e ingiusta quanto inefficace, che si rivolge in particolare contro i consumatori di cannabis: sono loro, infatti, il 78,56% dei 35.762 segnalati al prefetto nel corso del solo 2012.
Ingentissimo anche il numero dei carcerati, in un trend espansivo la cui curva è simile a quella statunitense. Sui 65.701 ristretti nelle prigioni italiane alla fine del 2012 25.269 lo erano per violazione alla legge sulle droghe. Come a dire quattro su dieci. Molti per il 5° comma dell’articolo 73, vale a dire per detenzione di piccole quantità, che prevede condanne da uno a sei anni.
Insomma, il maggior responsabile del sovraffollamento delle celle italiane, e dunque delle condizioni di estremo disagio nelle quali ci si vive, in particolare in estate, è tale iniquo apparato legislativo.
Un nodo che non ha voluto affrontare neppure il decreto sull’esecuzione delle pene avanzato dal ministro Annamaria Cancellieri. Una modifica legislativa già di per sé assai timida e ulteriormente depotenziata dal parlamento in sede di conversione del decreto, varato in questo mese di agosto. E, nonostante ciò, al solito definita “legge svuota-carceri” dalle pigre e stereotipate abitudini giornalistiche e dalla chiassosa opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e M5S.
Di fronte all’inanità istituzionale e alla miopia politica, rimane insomma da auspicare che, anche in questo caso – per una volta in direzione positiva – l’Italia almeno imiti gli Stati Uniti e si associ all’affermazione del suo procuratore generale: «Vista la quantità sproporzionata e non necessaria di persone detenute, dobbiamo essere certi che il carcere sia usato per punire, per fare da deterrente e per riabilitare, e non perché diventi un magazzino e un dimenticatoio».
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