Alla ricerca degli “Ibridi”

di Paolo Venturi

I segni di una nuova era sono spesso rinvenibili in processi di mutazione (evolutivi) della società, processi che rispondono a bisogni e scenari radicalmente diversi: veri e propri break strutturali caratterizzati da una forte discontinuità con il passato e dalla presenza di innovazioni continue spesso generate da processi di “distruzione creativa“(Schumpeter). Questi segni oggi appaiono nitidi anche se non totalmente espliciti e solo la capacità di interpretarli e sostenerli adeguatamente ci farà cogliere le opportunità di questa lunga fase di transizione (crisi).

Un esempio concreto è rappresentato dall’emergenza di forme di impresa che operano sia in ambito “for profit” che in ambito “not for profit“; la Stanford University le ha descritte come “Hybrid Organizations” ossia organizzazioni che nella tipologia giuridica, nelle forme di finanziamento, nel rapporto con i clienti e con i beneficiari e nella cultura organizzativa presentano un tratto nuovo gemmato dall’ibridazione di due modelli di impresa diversi.…. il primo ha come driver la finalità sociale, il secondo la massimizzazione del profitto in termini economico-finanziari.

Non sto parlando delle imprese socialmente responsabili e nemmeno di corporate philanthropy, ma di una nuova “genia” di imprese che sfuggono a qualsiasi classificazione tradizionale e che non sono riconducibili in maniera prevalente nè al non profit nè al for profit.  Ciò che le definisce è:

– La dimensione produttiva;
– La produzione di impatto sociale;
– La dimensione collettiva dell’imprenditorialità.

La Stanford University è a caccia di questi ibridi e li sta studiando a livello teorico (In search of the hybrid ideal, SSIReview, Summer 2012) … ma in Italia qualcuno dice di averli già rinvenuti: in società per azioni che producono servizi alla comunità senza distribuire profitti, in cooperative di tipo B che gestiscono centri commerciali a finalità etiche, in srl che associano medici per gestire poliambulatori con una logica low profit

La più grande rete di imprese sociali italiana, il Consorzio CGM, dice di averne avvistate una settantina nella cerchia della propria base sociale e ha espresso l’intenzione di conoscerle meglio per riuscire a dare concretezza a ciò che gli studiosi di Stanford hanno definito come “a sustainable infusion of human principles into a modern capitalism“.

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