E’ ormai ampiamente noto che lo star-bene (well-being) delle persone è associato non solamente ai bisogni materiali, ma anche ai bisogni relazionali, e cioè alla loro capacità di entrare in relazione in modo genuino con altri (Zamagni 2005). Ed è altresì noto che, mentre le nostre economie avanzate sono diventate “macchine” straordinariamente efficienti per soddisfare l’ampia gamma dei bisogni materiali, non altrettanto si può dire di esse per quanto attiene i bisogni relazionali.
La ragione è che i bisogni relazionali non possono essere adeguatamente soddisfatti mediante beni privati, quale che ne sia il volume e la qualità. Piuttosto, essi richiedono l’attivazione di altri beni relazionali, beni cioè la cui utilità per il soggetto che lo consuma dipende, oltre che dalle loro caratteristiche intrinseche e oggettive, dalle modalità di fruizione con altri soggetti.
Relazionale è quindi il “bene” che può essere prodotto e fruito soltanto insieme. Come ha riconosciuto lo stesso Arrow (1999): “gran parte della ricompensa derivante dalle relazioni interpersonali è intrinseca; la ricompensa, cioè, è la relazione stessa” . Amicizia, fiducia, felicità sono altrettanti esempi di beni relazionali. I beni privati e i beni pubblici pur opposti tra loro rispetto agli elementi della rivalità e della escludibilità dal consumo, condividono un comune tratto: quello di non presupporre la condivisione, né la conoscenza dell’identità dell’altro. Due o più soggetti possono consumare un bene pubblico in perfetto isolamento tra loro, questo non è pensabile per i beni relazionali.
Ricordare questo ci aiuta a contestualizzare meglio quello che negli ultimi due anni va sotto il nome di “Share Economy”. Quotidianamente leggiamo e sentiamo parlare di Co-working, Co-housing, Co-production… tutte declinazione di un paradigma del vivere che assume la condivisione come principio (Repubblica l’ha definito co-vivere).
La tragedia di questa narrazione è che spesso la condivisione viene declinata e lettacome un’esternalità della crisi, capace di ridurre i costi legati a tutti quei bisogni insoddisfatti che coinvolgono la nostra quotidianità e non come un modo migliore e diverso di fare delle scelte, scelte capaci di costruire una società ed un economia che oltre al valore d’uso e al valore di scambio, mette al centro anche il Valore di Legame.
Ecco quindi che quel “co” che ritroviamo davanti a tante parole non è il segno di una strategia difensiva attivata da qualche minoranza di visionari ma il segnale che di mezzo non c’è solo un comune interesse ma anche una relazione.
Il Valore di Legame quindi non è (solo) una esternalità (effetto) ma è l’input (meccanismo generativo) capace di cambiare la natura delle cose, della società, dell’economia fino ad arrivare al consumo ( pensate ai Gruppi di Acquisto Solidale); investire la vita cosi come l’impresa del Valore di Legame, non è una scelta appena dettata dalla “necessità” ma il presupposto di uno sviluppo umano ed economico più integrale: CO-OPERARE.
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