Ho già più volte segnalato, dal mio antico osservatorio di vita, le bizzarrìe del tempo che passa e che amo registrare.
Tra l’altro, il ribaltamento (almeno per me) di una consolidata tradizione domestica. Da giovane, era costume diffusissimo quello di passare gli abiti di nonni e padri ai figli adolescenti. Ricordo ancora un vestito di lana inglese, bellissimo e caldo, passato da mio nonno a mio padre e infine a me. Un negoziante di via Condotti a Roma, vedendomi nei primi anni 50 dello scorso secolo entrare con questo abito i cui risvolti finivano a punta quasi oltre la linea delle spalle, restò ammirato riconoscendone il taglio britannico di fine ‘800.
Oggi le cose, almeno per me, sono cambiate. Dopo aver per anni campato con giacche e pantaloni di mio padre e del mio fratello maggiore, mi trovo felice ad essere destinatario, in vecchiaia, di indumenti magnifici e quasi nuovi di figli e generi, molto più eleganti e alla moda di me.
E questo, oltre agli altri vantaggi, mi accredita di un’eleganza à la page che io, legato ad antichi schemi (giacche di tweed e pantaloni di velluto a coste da sempre) non avrei saputo come affrontare.
Gli antichi schemi di cui sopra mi hanno fatto però oggetto di una inaspettata recente critica.
Nell’ intervista telefonica a una radio, in cui, come capita spesso, mi si interrogava per telefono sui metodi di risparmiare acqua – con il solito intento di irridere alle mie abitudini in fatto di igiene personale – il conduttore si lanciò in una critica ironica ai cosiddetti “radical chic” tra i quali, forse involontariamente, mi includeva. E, per spiegare cosa fossero, li descriveva con pantaloni di velluto e giacche di tweed con toppe di pelle ai gomiti: esattamente quello che indossavo in quel momento.
Della stessa definizione mi accreditò, molti anni fa, Dante Matelli, un giornalista dell’Espresso, perché mi aveva visto circolare in bicicletta nel centro di Roma. Ma non ci feci caso.
A questo punto penso sia però utile spiegare la categoria alla quale mi si vuole includere, il cui nome fu creato dal giornalista Tom Wolfe che la lanciò sul New York Magazine nel 1970.
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
“Radical chic è un’espressione idiomatica per definire gli appartenenti alla ricca borghesia o gli snob provenienti dalla classe media, che, al fine di seguire la moda del momento, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostentano idee anticonformistiche e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o al radicalismo, generalmente avulse o diametralmente opposte ai valori culturali e sociali del ceto di appartenenza. Inoltre tale gruppo sovente si identifica per l’esibizione di cultura “alta”, per la curata trasandatezza nel vestire (la sottolineatura è mia) e, talora, per la ricercatezza in ambito gastronomico e turistico; questo perché spesso distintivo dell’individuo radical chic è l’imitazione superficiale di atteggiamenti che furon propri a certi artisti controcorrente, atteggiamenti che, banalizzati, divengono etichetta snobistica.”
Mi farebbe piacere sapere se i miei pochi lettori mi riconoscano in tale descrizione. Però lasciatemi credere che – in contrapposizione al conformismo di chi si pavoneggia in blue jeans scoloriti artificialmente e orrendamente strappati, magliette con scritte idiote, scarpe da tennis e inverecondi tatuaggi – un po’ della moda radical chic descritta da Wikipedia sarebbe la benvenuta nelle nostre sempre più sciamannate città.
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