“gli amici vecchi o non sono più tali, o non ci sono più; hanno lasciato o un pianto o un rimpianto, o un dolore acuto o un’amara e lunga interminabile disillusione: sicché mi son detto le mille volte: amici nuovi, niente! Non ci procuriamo nuovi dolori e nuove disillusioni. Ebbene no, ecco un amico nuovo che m’è venuto dalla mia adorata Sicilia, e in un’ora così tremenda”. Così scriveva Giovanni Pascoli il 24 gennaio 1909, all’indomani del terremoto di Messina al Prof. La Scola. Le 18 pagine complessive del carteggio sono state battute all’asta il 24 marzo 2011 da Bloomsbury a Roma (16 mila euro).
Ancora, tre anni e mezzo dopo, c’è ancora un dentro e ancora un fuori a L’Aquila. Ogni tanto ciò che c’è fuori si ripresenta dentro. Ma forse il dentro non c’è più. Di tanto in tanto, episodicamente, L’Aquila ritorna sulle pagine di giornali e televisione piena di promesse e di buoni intenti. C’è poi chi racconta gli aquilani e le loro storie, da tre anni e mezzo, con ostinazione, controvento e, usando le parole di Pascoli, senza procurare disillusioni. Storie di una dimenticanza collettiva e forse non inconsapevole. Ma sono storie che hanno l’esigenza di essere raccontate per contrastare quella che Jack Goody e Ian Watt chiamano “amnesia strutturale”: la sistematica distruzione di quelle parti della memoria sociale che diventano obsolete.
“Questa è L’Aquila” è una raccolta di storie che, con Anpas e Shoot4change, insieme ad Andrea Ranalli, Paolo Quadrini, Francesca Conforti e Alessandra Fratoni, abbiamo raccolto tra gli aquilani, tra coloro i quali erano stati nei campi di accoglienza e di chi sta vivendo una città distrutta dal terremoto del 6 aprile 2009. Sono passati tre anni dal terremoto del 6 aprile che ha distrutto L’Aquila ed è “toccato” al volontariato raccontare le storie degli aquilani e dover fare un mosaico collettivo di comunità «sparpagliate» (come dice una delle protagoniste), di persone che hanno perso «il luogo del vivere», come dice una delle protagoniste.
Ma oltre al nostro video ci sono le testimonianze che non ci sono rientrate, storie registrate fuori dalle riprese, quelle raccontate a voce bassa, guardandosi negli occhi e non attraverso una lente. Come quella di Tullio, che aveva e ha ancora una pasticceria in zona Rossa: “Sono 30 anni che sono aperto: faccio prodotti artigianali, torroni aquilani, pandolce de L’Aquila, tozzetti aquilani, amaretti allo zafferano, il dolce della perdonanza. Il sei aprile 2009 era tutto pronto per pasqua. Quando siamo tornati qui in pasticceria, era tutto per terra, le uova rotte. Ma ci siamo rimessi a lavorare anche di notte e il 12 aprile, la domenica, il negozio era tutto pieno di nuovo, come se non fosse successo niente. Tutte le uova erano piene dei regali personalizzati che ci avevano portato tutti i nostri clienti. Sono due anni che li stiamo cercando per restituire almeno i regali che volevano mettere nelle uova: cellulari, completino intimi, bracciali d’oro. Qualcuno lo abbiamo ritrovato ed è stata una gioia restituire, anche dopo due anni, quello che volevano regalare alle mogli o alle fidanzate”.
O la storia di Giusi Pitari: “Mi ricordo che passavamo a via Strinella che ora è un quartiere abbastanza popolato, ma il 26 luglio 2009 era completamente disabitato. Eravamo tutti molto composti per questa fiaccolata che era molto significativa e camminavamo lentamente. Ad un certo punto ho visto una luce al quarto piano di un palazzo e ho cominciato a guardarla sperando che si affacciasse dalla finestra. Cioè sperando che non fosse stata una dimenticanza. La cosa più significativa è che ho visto che tutti guardavamo lì. Che è un po’ quello che succede quando per caso vediamo una luce all’interno di una casa qui in centro storico perché in molte zone l’energia elettrica c’è ancora. Magari qualcuno può entrare con i vigili per andare a vedere casa, vediamo una luce e ci riviene in mente la vita che c’era lì. La cosa un po’ triste è che a distanza di tre anni è che non ricordiamo cosa c’era in quei luoghi. Non cosa c’era come vita sociale, ma quale persona ci fosse lì quale attività commerciale. Alcune volte mi risulta difficile guardare un negozio e ricordare esattamente chi fosse il commerciante con il quale avevo dei rapporti prima del terremoto”.
Per raccogliere queste storie, bisogna andarci a L’Aquila. Bisogna conoscere le persone, passarci del tempo. Ascoltare il rumore dei propri passi rimbombare nel pieno del centro storico. Bisogna lasciare il microfono a loro. Bisogna leggere ciò che scrivono sui loro blog e sui nuovi siti internet che ne sono nati. E poi bisognerebbe cambiare…
Negli ultimi quattro anni abbiamo più volte cambiato il nostro “status” (facebookkianamente parlando): siamo stati tutti aquilani dopo il 6 aprile. Poi siamo stati tutti cooperanti quando è stato ucciso Vittorio Arrigoni, o quando abbiamo chiesto la liberazione di Rossella Urru. Siamo stati migranti e senegalesi all’indomani della tragedia di Firenze. Poi siamo stati tutti emiliani, esodati, minatori e precari. Sempre pronti a dichiarare e a cambiare un’identità mobile e fluida a seconda di come cambiavano gli eventi. E gli aquilani? Cosa sono oggi gli aquilani? Tiziana dice che è terremotata. Giovanni dice che non ci si sente terremotato. Marina dice che la sua generazione sarà ricordata come quella del terremoto e che quando lo racconterà ai suoi nipoti, il suo ricordo sortirà l’effetto che aveva su di lei il racconto del nonno sulla guerra, perché raccontava solo quella. Dopo tre anni e mezzo, qual’è il nostro status? Siamo ancora tutti aquilani? E cosa siamo ora, che ci stiamo dimenticando di essere stati tutti emiliani?
John Hersey, all’indomani dell’uragano Diana (1955) diceva «è in una catastrofe che gli esseri umani capiscono di che cosa sono fatti loro e quelli che li circondano». E tre anni e mezzo dopo, gli esseri umani hanno capito? Come ho avuto occasione di ricordare all’Internet Festival di Pisa, due giorni fa, forse Mark Twain aveva ragione quando diceva: “La storia non si ripete, fa le rime”
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