Nel criticare il progetto del reality “Mission” sono stato tacciato (insieme ad altri) di oppormi alla innovazione, di fare polemica prima di vedere i fatti, di essere troppo politicizzato e di disinteressarmi del problema dei profughi dando più importanza al tema della comunicazione. Lasciamo stare! Perché non intendo parlare di questo e neanche intendo dare fiato alle facili critiche di “supercachet dei vip”, “quanto costa fare la trasmissione!”, “…cosa c’è dietro…”, “quanto spendono le ONG in comunicazione”, ecc.
Più che aumentare la polemica o ridescrivere i fatti vorrei invece mettere in evidenza ciò su cui dobbiamo concentrare il nostro pensiero. Per avere una visione di insieme e oggettiva del dibattito basta andare a vedere, oltre agli articoli di Vita.it. (in genere nella sezione “mondo” o in quella “non profit”) lo Storify realizzato da Giuseppe Tiravanti e le pagine facebook dedicate al fundraising (partite da questa).
Non mi interessa la polemica specifica sul caso, anche perché la vera debolezza che oggi abbiamo compreso (almeno alcuni di noi) non è il reality Mission (o docu-reality, che poco cambia) di per sé. La vera debolezza che emerge è tutta interna al settore delle ONG e del non profit nel suo complesso. Capisco che è una cosa antipatica a dirsi, ma credo vada detta. Con amore e spirito costruttivo, ma va detta.
Mi si domanderà: “ma che c’entra tutto questo con il fundraising? (visto che il tuo è un blog dedicato a ciò)”. C’entra perché senza missioni forti, identità chiare e strategie vincenti non c’è fundraising. Per farlo e farlo bene non basta toccare il cuore della gente. Questo è un pensiero che andava bene per il secolo scorso. E infatti io resto convinto che il reality contribuirà a far deperire il mercato del fundraising.
Nel dibattere la questione “reality sì, reality no”, abbiamo sentito quasi tutte le voci: cooperanti, volontari, cittadini comuni, ideatori del programma, VIP’s, Presidente della Camera, giornalisti, parlamentari, professionisti e pensatori della comunicazione e del fundraising. C’è stato un unico grande silenzio assordante: quello delle organizzazioni di secondo e terzo livello del non profit e in particolare Associazione Italiana delle ONG e Forum del Terzo settore. A dire la verità alcune singole organizzazioni o loro coordinamenti (come CIPSI) hanno espresso il loro punto di vista ma sono una parte infinitesimale rispetto alla galassia italiana delle organizzazioni impegnate in questo settore.
Al di là delle opinioni che potevano liberamente e legittimamente esprimere, questo silenzio mette ancora una volta in evidenza che accanto alla grande forza nativa del mondo non profit italiano (basta vedere l’ultima indagine Istat o le indagini che hanno valutato il valore sociale ed economico prodotto dal settore) registriamo una grande debolezza sul piano della rappresentanza e sul piano della leadership con la mancanza di un punto di vista strategico sulla identità, sul ruolo e quindi sulle politiche che il non profit e in particolare il settore delle Ong può e deve avere nel paese, cercando una specificità italiana che rappresenti un valore aggiunto rispetto al panorama internazionale.
Ma ancora prima, manca anche la voglia di interrogarsi sugli aspetti critici che sono emersi accanto alla questione The Mission (che ripeto è il problema minore) e che dico solo per titoli:
– la critica seria e determinata proveniente dalle nuove leadership africane e dei paesi a minore tasso di sviluppo circa l’immagine che noi produciamo su di loro e soprattutto circa il ruolo di monopolisti di un mercato della solidarietà e dei fondi istituzionali funzionale e garantire il loro ruolo e che rappresenta la “pattumiera” dove scaricare (anche in termini di donazioni filantorpiche) i sensi di colpa e la colpa stessa del nostro mondo occidentale.
– la preoccupazione che il fundraising, ossia la vera e unica strategia di sostenibilità economica del non profit che garantisca democraticità e partecipazione (nostri principi irrinunciabili) sia relegato ad un ruolo di mera “vendita” delle cause sociali sia per i metodi utilizzati (in tutti i paesi si sta dibattendo in modo molto impeganto sulla necessità di darsi delle regole nel fundraising che vadano nella linea del buon senso e dello sviluppo del mercato evitando forme di cannibalizzazione), sia per il tipo di rapporto intrattenuto con quello che i promotori di questo programma chiamano “popolo” o addirittura “popolino” o “masse” (nozione che non esiste più già dagli anni ’80) e che viene tacciato di insensibilità, ignoranza e demenza (scordandosi che 20 milioni di italiani sono donatori e che sono quattro volte di più del pubblico medio di un reality). Un fundraising staccato dalle missioni, dalle identità e dai valori delle organizzazioni che lo fanno, perché solo così si possono raccogliere soldi.
– la crescente sfiducia e incredulità proprio del popolo dei donatori circa la capacità del non profit di risolvere alcuni endemici problemi del nostro paese e del nostro pianeta e quindi il preoccupante crescere di una opinione qualunquista e dietrologica circa l’onestà del non profit.
– La incapacità di trovare nuove forme di comunicazione con i propri stakeholder sociali che non sia quella pubblicitaria o quella del glamour, quella della emergenza, quella delle campagne fatte a fotocopia e quindi la incapacità di rinnovarsi culturalmente e professionalmente cercando di cambiare il sistema della comunicazione invece di abdicare ad esso. Di conseguenza l’incapacità di istaurare un rapporto forte e non di sudditanza con il mondo della comunicazione, magari per ricevere solo un po’ di spazio di serie B e qualche aiutino nel passaggio televisivo delle campagne.
Se c’è un effetto positivo che il reality ha prodotto (l’unico credo) è che ha favorito l’emergere di queste criticità e a volte di vere e proprie contraddizioni che spero davvero possa favorire una riapertura non solo del dibattito ma del pensiero strategico e dell’assunzione di responsabilità da parte del settore. Facendo anche emergere il punto di vista di soggetti che fino a ieri non esprimevano una loro posizione identitaria: i cooperanti, i volontari delle tante organizzazioni e i donatori e che mi sembrano proiettati più delle Ong verso una prospettiva di cambiamento e progressista. Ma tutto questo risulta difficile se non c’è un vero, forte e riconosciuto soggetto in grado di esprimere una leadership su tutto ciò. Ancora una volta in Italia il problema sta nelle teste e non nei corpi.
Occorre fare qualcosa, quindi. Ed è un bel tema per far girare il cervello durante il mese di agosto.
@mcoencagli – @fundraisingroma
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